Chiedo scritture che strappino lembi dell’invisibile, dell’inesistente, in qualunque modo, con rabbia o con distacco, con freddezza o con frugalità, con carnalità accesa o con astratto furore. Tutto, davvero tutto, purché si avveri il miracolo dell’indentramento e del trascendimento di questa complessità. Un empito che mi faccia trasalire e che non inventi mondi alternativi, bensì mondi profondi, capaci di farmi comprendere il mondo. Che l’universalità sia percepita nella cosa stessa del racconto, delle volute a cui uno stile necessario implichi la mia presenza. L’antico gioco delle forme e dei nomi divelto, nel momento in cui vi si aderisce con qualunque dispositivo, con lo strappo dell’anima, dell’animale. Vento sulle più alte cime. Fuoco dalle radici delle mangrovie più sorprendenti. Immobilità e gelo nella furia che rendiconta l’amore, la morte, l’esserci: il ghiaccio brucia. Questo chiedo alle scritture, pochissime mi danno questo che chiedo. Attendo ormai pochi libri, pochissimi nomi: padri, madri, fratelli e sorelle nell’inebetimento davanti all’eccelso, allo sprofondamento. So che questa non è una poetica: è un misurare gli esiti, è percezione mia di ciò che fu detto: letteratura. Non smetto di domandare, a prescindere dalle risposte. Datemi complessità, nutrite la mia fame, ammazzate i vitelli, ammazzate me.