L’ispirazione e il poetico nella narrazione di questo ventennio

La letteratura e l’impegno giornalistico di Alessandro Leogrande, improvvisamente venuto a mancare domenica, il che ha costituito uno choc per me e per tanti altri scrittori, mi hanno fatto riflettere su cosa è successo in questi anni di narrazioni. All’inizio del nuovo millennio si sperimentavano scritture dense, d’impatto, oppure oblique e fuori dagli schemi usuali, che erano il companatico storico dell’epoca. C’era chi tentava il racconto della realtà e c’era chi riusciva a potenziare il fatto allegorico utilizzando generi, che soltanto un decennio prima erano considerati non all’altezza della tradizione letteraria italiana. Ci fu chi sintetizzò i movimenti tellurici di quella fase della scrittura italiana, evidenziando come una nuova epica stesse abolendo i confini e le riserve indiane, producendo oggetti narrativi non identificati (la formula utilizzata da Wu Ming 1). Se era vero che si era andati in convergenza sul superamento di certi vezzi stilistici e di soluzioni meccanicamente riproposte, appare inconfutabile che, perlomeno per quanto riguarda la prosa, si era venuta a creare una comunità piuttosto brillante e attiva che prscindeva da una malattia poetica tutta italiana, ovvero l’ispirazionismo. La laicizzazione indotta da quel movimento di vasta e diffusa produzione letteraria ha fatto sì che negli anni risultasse quasi interdetto l’utilizzo del poetico come fulcro centrale del fare letteratura. Sono pochissimi, a oggi, gli scrittori che non si appoggiano alla storia o investigano la realtà con armi in qualche modo ideologiche. Sto prescindendo ovviamente dalla marea montante di finta scrittura, che è il segno distintivo di questa contemporaneità italiana: ciò che l’editoria continua vanamente a vomitare, in assenza di qualunque mediazione (il che non è un dato di per sé tragico, considerata la povertà e la cattiveria meschina delle ultime mediazioni critiche che si sperimentarono fino a un decennio fa), è il dato precipuo da considerare per chi si occupi di sociologia della letteratura (a costoro vanno i miei migliori auguri, poiché, se possibile, si ritrovano a essere operatori nel nulla). Se si considerano i generi come il noir, dove perfino l’infima operetta si concentra sulla supposta realtà, o la reportagistica che ispira il romanzesco, che ha in Roberto Saviano il suo più importante esponente, oppure l’oggettistica letteraria non identificata, che da Wu Ming a Giorgio Falco a Helena Janeczek a Vitaliano Trevisan e Teresa Ciabatti (per fare soltanto pochi nomi) è l’alternativa a un’idea profonda di letteratura giornalistica o di giornalismo letterario, oppure le scritture più tradizionali e tradizionaliste, da Alessandro Piperno a Michele Mari a Nicola Lagioia a Paolo Giordano, e tutto ciò senza desiderio alcuno di affermare che il catalogo è questo, proprio perché ci troviamo a fare i conti con una nebulosa letteraria estesissima – ci si renderà conto che l’elemento mancante è certamente una sfiducia nell’ispirazione come valore assoluto. Viene di volta in volta affrontata la storia o un aspetto della realtà, attraverso un abbassamento dell’intensità allegorica. Ci sono sicuramente autori che tendono a intrattenere un rapporto complesso e ambiguo con l’ispirazione (penso a Tommaso Pincio, sulla cui opera però il discorso sarebbe lungo, o ad Antonio Moresco, per fare soltanto due esempi ben noti) e tuttavia manca in questo panorama una scrittura che faccia saltare il discorso sulla realtà, nel senso di una canalizzazione di potenze pensative e di traduzioni formali di ordine metafisico. Non avanzo alcuna valutazione intorno a questo fenomeno: mi limito a constatarlo. E’ probabilmente una buona inverisimiglianza (laddove la bontà coinciderebbe con un’assenza di naïveté e di grottesco insostenibile) a caratterizzare una possibile fuga verso l’ispirazionismo? Può essere. Mi pare che tutto ciò si possa misurare con la distanza che le scritture narrative intrattengono rispetto alla poesia. Quante scritture stanno rischiando il poetico oggi? La realtà, cioè un genere che oggi appare più irrealistico che mai, è una malattia, un agente patogeno, un contagio? Ciò che avvicina una scrittura prosastica a Milo De Angelis è un valore? Per me: sì.

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