Un tempo, avrebbe segnato perpetuamente l’immaginario collettivo la ripresa di Slobodan Praljak, il generale croato della Bosnia Erzegovina, che ingoia veleno alla lettura della sentenza al Tribunale internazionale dell’Aia, che lo condannava per crimini di guerra. C’è un’elementare regia video, che stabilisce una ritmica tra la drammatica esecuzione della volontà suicida e lo sconcerto fossile dei giudici e dei presenti, mentre Praljak consuma con una regia suprema la fiala venefica, in perfetta contemporaneità con l’esposizione della sentenza – bisogna pensare alle sillabe pronunciate dal giudice e al calcolo che l’ex militare ha compiuto, perché il suicidio avvenisse al culmine della lettura. E’ una lentezza esasperata di tutto e tutti, mentre Praljak è velocissimo sia nel pronunciare la smentita della sentenza sia nell’assumere la sostanza mortale. Il suo volto è cinematografico, la grossolanità dei suoi tratti somatici spalanca l’immaginazione ad abissi virili di massacro e tenebra. Il colorito da sistema cardiocircolatorio in crisi iperpressoria contrasta col pallore lugubre e democristiano del magistrato. La mise civile è esaltata dai tessuti carnacialeschi con cui la magistratura di tutto il mondo si ostina a esprimere la propria condizione di ramo a parte dell’umanità. Il giallo di come il generale si sia procurato il veleno monterebbe in una società dedita all’immaginario. E questa non è tale: a due giorni di distanza è quasi abbandonata la notizia di un simile drammatico atto in luogo pubblico. Qualcuno ricorda il polonio di Litvinenko, l’agente segreto forse ucciso dagli uomini di Putin. Pochissimi ricordano il suicidio in diretta tv di Budd Dwyer, il politico americano che durante una conferenza pubblica si infilò la canna di una pistola in bocca e si sparò. In entrambi i casi, Litvinenko e Dwyer, si viveva ancora in una società in cui lo spettacolo sorprendeva e, quindi, segnava una comunanza, che è altra cosa rispetto alla condivisione. Che si crei un’economia shareable dell’immaginario è possibile soltanto quando è affollata la sfera delle informazioni, nell’età in cui la teoria dell’informazione è vincente, poiché ha coniato l’era e ne viene convalidata. Fino al termine del tempo dell’immaginario era possibile la referenza, appoggiandosi al ricordo e all’impressione comune. Nell’epoca che Roberto Calasso definisce “dell’inconsistenza” nel suo cupo e splendido “L’innominabile attuale” (Adelphi) supera la soglia dell’accesso collettivo una informazione qualsiasi (un generale suicida in diretta, un daino ferito e ricoverato da un bambino, una risposta social surreale di una neomamma), ma la persistenza nel ricordo non è più un elemento in gioco e, dunque, non è più nemmeno valore. Per affrontare le storie, si prescinderà dall’organicità di una rete di ricordi persistenti. Vanno a fioritura storie autoesplicative o specialismi narrativi che non intessono dialettica alcuna con gli accadimenti più memorabili: schegge di tempo autistico, in pratica. In questo senso, cosa ha senso raccontare? L’embricamento di una storia significativa in una storia ancor più significativa, in quanto più estesa e universale? A me sembra che tutto si rattrappisca nell’esposizione del mito, ma non considerato tale: l’agone in cui avviene la storia è il cerchio prestabilito della tragedia classica. Questo intendo con la possibile narrazione di “strane fiabe”. In una “strana fiaba”, un criminale di guerra si suicida in diretta a prescindere dal ricordo comune: serve universalità alle motivazioni di quel gesto e alla narrazione in cui si dipana. Nel tempo che abbiamo inaugurato esistendo in questi anni, più che il “c’era una volta” ci si deve misurare con e raccontare “ci sarà per sempre”.