In morte di Tom Wolfe

C’è una profonda tristezza, del tutto delirante, nel concedere la parola dell’addio a quel geniale pezzo di merda che fu Tom Wolfe, uno degli scrittori a me contemporanei che più amai e più mi costrinse a pensare i miei personalissimi regimi prosastici. Tom Wolfe è un pezzo di merda in quanto intollerabile e intollerante conservatore, politicamente schierato sempre per il peggio, eternato in questa posa da gagà in abiti improbabilmente dandistici, puramente wasp e conferma idiosincratica a ogni sua propria tesi. Ciò non toglie che abbia esercitato uno stile supremamente affascinante, una sapienza letteraria che ha contribuito alla sopravvivenza del postmoderno fuori tempo massimo e sia stato l’edificatore di almeno due tra i più alti grattacieli narrativi contemporanei (“Il falò delle vanità” e “Un uomo vero”), come scrive oggi sul “Corriere della Sera” uno dei migliori giornalisti culturali della nazione, ovvero Matteo Persivale. Non vanno risparmiati alla memoria di Wolfe i suoi decadenti e incattiviti esiti letterari, che hanno costellato la sua più tarda produzione, titoli semifinali che valevano un exitus da lasciare imporporate d’imbarazzo le gote sui volti dei suoi lettori d’antan. Il fatto di avere coniato l’etichetta di “new journalism” lo proietta tra i fari della comunicazione degli ultimi sessant’anni, il che la dice lunga sulla furbizia del vecchio lincolniano, che in quella sua stessa etichettatura è rimasto coinvolto, fino a cristallizzare se stesso in una parodia del se stesso. Tuttavia il genio del particolare e dello sguardo al contempo lucido e strabico ne ha fatto un romanziere imprescindibile negli ultimi decenni. “A man in full”, sciaguratamente tradotto come “Un uomo vero”, è una purissima istoriazione di un’epoca che si è chiusa e, con essa, ha serrato al di là della decenza la prosa sorprendente di Wolfe. E’ comune odiare un maestro di scrittura? Accade con Céline e, in effetti, di Céline qualcosa c’è nella figura controcorrente di Tom Wolfe. Lontani da lui i pauperismi e le libido per il suppurante del grande francese, ma in comune vanno annoverati il cinismo e lo sforzo allo sguardo penetrante lanciato sulla realtà, l’amore per le bassezze della “bestia umana”, altro riferimento francese della prosa di Wolfe, che titolò una formidabile raccolta di saggi ibridi proprio mutuando da Zola l’espressione. La ricerca di una brillantezza sempiterna è talmente insistente nella prosa di questo individuo in ghette e bastone di malacca, da condannare lo scrittore a una maniera torbida e mai oscura. Amava lo scintillìo, Wolfe, e da quello shining veniva progressivamente incantato, ipnotizzato, votato a una trisomia spirituale, mai spiritica o fantastica. Wolfe non sogna, non fa sognare: corrode – è un peccato mortale per il genio letterario. Insieme a lui, coinvolto in questa patologia della lucidità sterile, c’è l’altro genio del “new journalism”, Hunter S. Thompson, arcigno conservatore e scomodo testimone come Wolfe, ma con meno carisma e rotarismo, senza parlare dello spunto all’edificazione di alti skycraper narrativi. Da entrambi procedette il Foster Wallace di “Una cosa divertente che non farò mai più”, ovvero la pietra miliare della letteratura brillante che sembra tale, ovvero letteratura, ma non lo è affatto. Chi a Wolfe si è contrapposto senza nemmeno pensare di farlo sono il Philip Roth di “Pastorale americana” e il DeLillo di “Underworld”, ovvero i talenti che hanno sfiorato, con Wolfe stesso, la realizzazione del GRA, il grande romanzo americano di epoca contemporanea. Con Wolfe si ride, si esplode in euforia, si penetra un’amarezza che conduce al nichilismo, ma si resta anche proditoriamente accecati dalla capacità di costruire strutture narrative vorticose e, ciò che più conta, capaci di aggredire l’epica. E’ la storia di una storia sfiorata, di un fallimento prodigo di sottofallimenti e di piacere della superficie “kolor karamella”, la parabola tristissima dello snobismo protestante di un impero che non smette certo di esserlo, ma che mostra un’evoluzione ben più problematica di quanto previsto da questo intuitore nervoso e tachicardico, orpellato senza mai essere grottesco, piuttosto formulatore di denuncia del grottesco, che appunto sfiora soltanto il tragico e non lo compie mai. Non so se la terra sia lieve o meno all’impacciato antimetafisico Tom Wolfe, ma so che sopra quella terra c’è da porre una corona di ringraziamento, se non di venerazione. Tom Wolfe è morto: non arrivo a dire evviva Tom Wolfe, ma certo posso costringervi a leggerlo, perché ne vale la pena e, in parte, ne va di voi stessi.

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