E’ finalmente riedito “Cibo” di Helena Janeczek, uno dei più formidabili (nel senso che lo si deve temere) oggetti narrativi degli anni Zero. Lo ripubblica Guanda, l’editore con cui Helena è andata a vincere l’ultima edizione del Premio Strega. Che cosa dunque è “Cibo”? Quando fu pubblicato, da Mondadori (non perdonerò mai al mio editore di avere perso questa autrice splendida e commovente, una delle poche a tentare il tragico in Italia – e a riuscire a farlo), non c’era la dicitura “Romanzo”. E in effetti, per quanto mi sembrasse surreale vietare a questo testo una categoria tanto desueta e pronta a deflagrare a fronte della saturazione che il romanzesco avrebbe imposto all’atmosfera non soltanto nazionale, “Cibo” non è un romanzo per come si è pensato nel Novecento, ma soltanto perché nel Novecento i teorici e i critici non si erano resi conto che da Gadda a Pasolini, passando per Calvino e per Eco, l’etichetta famigerata, che doveva garantire chissà perché le vendite, era esattamente il bersaglio poetico di qualunque prosatore di rilievo. L’ibridazione è il nostro codice genetico letterario. Lo è a partire dallo sbilanciamento linguistico, che fa della poesia, la purissima e sporchissima poesia italica, l’autentico esordio della letteratura nazionale: di lì non si uscirà mai più. A maggiore ragione sembra oggi vagamente ridicolo il tentativo di imporre una letteratura consolatoria, bassamente emotiva, decorativa nello stile facile, piatto, anonimo, bianco, edulcorato, ad altezza di supposti “lettori forti” sensibilissimi alle foglie, spaventabili con un “buh” grafico in copertina, tremuli per la dolcezza delle loro esistenze risaputamente traumatizzabili con un nonnulla di realtà – qualcosa di conoscitivamente privo di qualunque apice o gradiente e di passionalmente asexual. Un’alessitimia di sé e del mondo. Arrivò nel 2002 questo testo che seguiva il prodigioso “Lezioni di tenebra” di Janeczek, una meditazione che perforava in qualunque direzione: il male, la storia, l’amore, la nuda vita, l’idea, il fato: appunto la tragedia. Qui era invece il cibo, questa secrezione della nuda vita che si produce in cultura basale e poi via via sempre più raffinata, paradossalmente omicida, in una corsa all’affettivizzazione pressocché irresistibile. Un’ossessione inconscia, un’ossessione conscia. Una disgrazia collettiva per la grazia della sopravvivenza e poi del consumo e poi della fine del pianeta. L’individuo esplode. La storia si intrica. I personaggi sono il femminile, il femminino, l’assenza di qualunque genere. Si sta male, leggendo: quindi si sta benissimo. Al termine del libro, c’è l’inizio: non è un saggio, non è un excursus o un incursus, non è una compilazione, non è psicogeografia, non è metafisica: è letteralmente la “Mucca pazza”, ovvero la patologia della realtà modificata dall’umano, il cibo avvelenato che diviene sistema nervoso. So bene di non avere qui dato appigli riconoscibili alle lettrici e ai lettori, “forti” o “deboli” che siano: andate a leggervi la quarta di copertina. Qui io devo soltanto rendere grazie a Helena Janeczek e, evitando la pelosa ipocrisia del critico partigiano o meno, esortare a leggere questo testo fondamentale, che aiutò a giungere all’unica acquisizione rilevante della mia generazione letteraria: l’oggetto narrativo non identificato, la poesia nella prosa: la verità.