Mi capitava ieri di rimettere gli occhi, e assai poca testa, sul racconto per me più prodigioso de “La ragazza dai capelli strani” di David Foster Wallace. Il racconto si intitola “Lyndon” ed è una variazione shakespereana e post-postmoderna sul presidente statunitense Lyndon Johnson, quello che giurò in aereo a poche ore dall’attentato a JFK. L’impressione che mi ha fatto, a distanza di anni, e quindi conoscendo questi anni, che DFW non ha potuto conoscere e forse nemmeno pienamente prevedere, è che si tratti di un testo che permane, poiché *ha senso*. E ha senso, con tutta probabilità, perché in questa età ad avere senso, in un modo inaspettato, è la politica, che paradossalmente sembrerebbe privata di valori e di materialità e di memorabilità e di dialettica e perfino di atout estetico. Nell’esplosione dell’alta tossicità che, solo qualche tempo addietro, si poteva definire “infosfera” e oggi è del tutto “sfera” priva di “info”, la luce modulare e accecante che cuoce le carni dei potenti mette in ombra l’inessenziale, che è il tratto e la cifra a distinzione dell’attualità. Connettevo la narrazione ironicamente statuaria di DFW a quel capolavoro di stile e cognizione che è “Mio padre la rivoluzione” di Davide Orecchio (è uscito due anni fa per minimum fax), una delle tessiture e uno degli arazzi più ipnotici della nostra letteratura contemporanea, variazione sul corpo e sull’idea di giganti storici (Lenin, Stalin, Trotskij), seduta medianica in cui si evocano larve spirituali, della cui veridicità e affidabilità non si saprà mai. “Veridico” e “affidabile”, insieme a “larva spirituale”, sono già tre istantanei poli di attrazione del discorso letterario nel nostro tempo. Il verisimile non regge, al momento, si dimostra una fola, se applicato alla letteratura, mentre si trattava di una profezia, se applicato all’epistemologia del presente, dove tutto si gioca sulla verisimiglianza, sull’avatarismo, sulla digitazione a cui non serve nessuno che digiti. Le larve spirituali sono la letteratura, invece, e lo sono per sempre. Io non credo affatto che la narrazione del politico costituisca una fonte di sopravvivenza a questo interessante e tragico momento, che tutti noi viviamo ricchi di quote di disattenzione e di gellificazione del desiderio. Tuttavia il corpo del re è un corpo né terrestre né celeste, quindi è più interessante di qualunque corpo che non sappia percepirsi e terrestre e celeste. In questo momento la modulazione lirica può passare attraverso le corde vocali di quel corpo, di quel re – oppure non passa, questo è un fatto, che definisce la crisi della poesia, prima che l’accartocciamento e l’irrilevanza dell’attuale narrativa. Il re, né celeste né terrestre, è il peccato originale di un’intera potenza storica, che inizia nella pietra, si trasla in cartapecora e poi in carta, quindi si sfalda nel dashboard immateriale, dove le storie sono quadri frammentari, volatilità frizzanti e buscianti, ma incapaci di larvalità: la larva, per quanto sia incerta, dispone di una sagoma. La letteratura è il male, ma il male non sempre è letterario. Bisogna andare a prendere quel differenziale: il luogo in cui il male non è letterario. Il Regno è questo.
[Per una non incredibile coincidenza, non sospettavo minimamente che oggi fosse l’undicesimo anniversario della morte di David Foster Wallace. Resta nei nostri pensieri, come è giusto e ovvio]