Il potere contemporaneo: una riflessione da e su Aldo Moro

Propongo una riflessione di Aldo Moro pronunciata nel giugno 1973, al dodicesimo congresso della Democrazia Cristiana. La dimensione politica, fatalmente insufficiente oggi, in un momento storico di balzo della nostra specie, significava nel ’73 precisamente anticipare tale balzo di specie ed enunciare la propria insufficienza, senza smettere di *andare avanti*. L’analisi che fa Moro corrisponde all’idea di progettualità che ne doveva scaturire? No. Non dico nelle parole di Moro, ma in generale, proprio a proposito del confronto tra dimensione politica e storia di mondo: se disponiamo di analisi corrette, sappiamo oggi impiegare progetti che le realizzino?

Il progetto, l’idea e la pratica della progettazione, sta subendo un infarto, non perché non ci siano progetti, ma perché questo dispositivo non sembra capace di esaurire la risposta alla realtà, tanto sovrabbondante è l’impiego di progettazioni e tanto caotica è la risposta da parte del mondo. Oggi il territorio del disagio, pur spiegato ed evidenziato nelle sue cause, e parlo del disagio psichico e sociale, individuale e collettivo, è forse risolvibile dalla progettazione? L’insieme infinito di progettazioni, comprese quelle algoritmiche, le quali sono esse stesse *una* generale progettazione, risponde forse in modo adeguato all’esigenza di una risoluzione del problema? A mio avviso, no. Cosa c’è dunque oltre il progetto? Probabilmente c’è il sentire e rappresentare esattamente questo stato: il progetto è insufficiente e noi continuiamo a progettare. Rappresentare questo disagio che impressiona, derivante dal fatto che i progetti sembrano non funzionare eppure continuano a funzionare: è difficile, ma è ciò che viene chiesto dalla realtà stessa. Rappresentare in prima persona questo disagio, anche ricoprendo ruoli cosiddetti apicali, è una autentica croce, di fronte alla quale si nota sorgere una sorta di “inventiva riluttanza”: è riluttanza, ma è creativa. Le basi della realtà di questa nuova civiltà in cui siamo immersi, la quale più di prima sembra esporre l’umano all’infinito (infinite informazioni, infinte opinioni, infinite scoperte, infinite possibilità, infinite contraddizioni, infinite efficienze e infiniti deficit), presuppone la fiducia assoluta in livelli di gestione competente del mondo, nell’epoca dell’indifferenza tra competenza e incompetenza. Queste competenze sono la vera posizione politica fondante, l’erede del vecchio progressismo. Dire che si tratta di posizione politica è già difficoltoso, si fatica a restringerla appunto nel campo della sola politica. Questa posizione, forse più che politica, significa anzitutto fare fronte allo spasmo: ambientale, sociale, economico, di gestione della realtà. L’avversario politico oggi è questo spasmo: l’entrata del caos a ogni livello, psichico e sociale. In ciò, Capitol Hill rappresenta molto precisamente cosa sia l’avversario. L’avversario vero della politica che sale a un grado più vasto, poiché tale grado è planetario mentre prima governava pezzi del pianeta, è di fatto la visione che oggi vive in questi spasmi, in questa tensione caotica. Il pacifismo che giustifica l’aggressore, l’avversione alla scienza e l’inversione tra cura e malattia, la negazione di ciò che succede con il clima, il narcisismo diffuso senza identità, la religione secolare del “secondo me”, il lamento perenne che assume tratti isterici e di singulto violento: sono alcuni limitati esempi di spasmo, sono istanze del caos come stadio politico. Non è più sufficiente determinare come fascismo questa pulsione di base, che ha prodotto in questi anni la sua cultura, dalle destre estreme agli autocratismi contemporanei fino alle derive ipernazionaliste e agli assalti sulle questioni dei diritti. Due idee di umanità si fronteggiano: il caos reattivo con la sua violenza su ogni genere di elaborazione sociale e la propensione a una cooperazione generale in nome e per conto del pianeta tutto, di ogni individuo di qualsiasi specie. Che ci sia rappresentanza politica o meno a queste due istanze è secondario: la questione è talmente planetaria e storica, che queste istanze si rappresentano da se stesse, accadono comunque. Una parola imprecisa sull’istanza cooperativa, la quale ha dentro di sé tanto critiche al capitale quanto la capacità di uso di quel grande capitale che è il tutto che viviamo: mancano teaorizzazioni all’altezza. E se ne capisce il motivo: la teoria, come la politica, mostra la propria insufficienza, in un tempo come questo, in cui è il tutto (tutto il pianeta) a pensare e agire. Ciò non toglie che, come le persone deputate a ingaggiate a rappresentare politicamente questo passaggio, anche i teorici debbano essere “inventivamente riluttanti” e compiere in ogni caso il loro lavoro di meditazione sulla realtà e le prospettive. Così pure il nuovo tipo di politico ha da realizzare quest’opera: fare un salto oltre se stesso, al di là della riluttanza, toccando l’umano sensibilmente, addirittura con il proprio corpo, se non quello fisico almeno quello emotivo, a latitudini interiori che non gli o le sono proprie per formazione storica. Il salto di specie va consumato ed elaborato anzitutto in se stessi. Credo che si tratti del requisito indispensabile, senza il quale si vivono impossibilità, sofferenze, senso di impotenza e di perdita. Dopo anni di esaltazione comunicativa della parola “empatia”, il salto empatico va effettuato davvero: tra sé e sé, in un modo che non si prevedeva e con tutta la stanchezza che deriva dal farlo, provenendo da un’identità consolidata che deve aggiornarsi per forza. Comprendo benissimo che questa mia piccola nota finale sembri retorica – però è letterale e materialmente da compiersi. Allora lo sguardo di Aldo Moro raggiunge davvero tutti noi anche oggi, il che francamente non mi pare smentibile. Ecco le sue illuminanti parole: “Sono in gioco grandi processi di liberazione espressi nella forte spinta (…) verso l’espansione dell’area della dignità degli uomini e dei popoli. Possono sfuggirci dettagli, ma non ci sfuggirà l’insieme, che del resto è tanto chiaro, tanto evidente ai conservatori, che non mancano di apprestare rapidamente le loro robuste difese. Non si può negare che questo sia il tratto caratteristico dell’epoca in cui viviamo, che colpi formidabili siano già stati dati a molteplici cristallizzazioni del potere, ad insostenibili disuguaglianze sociali, a condizioni subordinate che erano prima accettate come una fatalità e contro le quali si è acceso ormai un incendio divoratore. E così molte altre cose saranno cancellate con qualche turbamento e rischio, ma con ragioni di fondo che non sarebbe solo ingiustizia, ma anche follia non riconoscere e secondare. Un partito garante deve avere certo riguardo anche ai pericoli che accompagnano i difficili processi di liberazione dell’uomo e d’innovazione dell’ordine sociale. (…) La liberazione in corso nella società moderna (ma la Chiesa, sia pure con propri moduli, non vi è estranea) si esprime nella forte carica critica ed innovatrice, portata dai giovani, dalle donne, dai lavoratori, da un’età cioè che è essa stessa avvenire e speranza, dalla condizione della donna che reca nella società la forza dirompente della scoperta di sé medesima, dal mondo del lavoro con una problematica sempre più complessa e, per così dire, civile. Non c’è dubbio che noi saremo giudicati sulla base della nostra capacità di interpretare questi fenomeni e di prendere su di essi una posizione appropriata. Non è in gioco solo il giusto assetto della nostra società, ma veramente la sua ricchezza e la qualità della vita. Perché la vita non è la stessa, ma migliore, se i giovani possono essere giovani, le donne donne nella pienezza, non deformata e costretta, della loro natura e i lavoratori cittadini in assoluto, al più alto grado di dignità. Queste scoperte vengono avanti talvolta in modo contorto, disordinato e persino violento. Ma anche aberrazioni e tortuosità sono i segni di quello che avviene, di quello che si annuncia. E la prudenza e la verità ci impongono di andare al di là dei segni. (…) Per quanto si sia turbati, bisogna guardare al nucleo essenziale di verità, al modo di essere della nostra società, che preannuncia soprattutto una nuova persona più ricca di vita e più consapevole dei propri diritti. Governare significa fare tante singole cose importanti ed attese, ma nel profondo vuol dire promuovere una nuova condizione umana”.

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