Leggendo “Il passeggero” di McCarthy: piccola nota transitoria

Sto leggendo, con l’attenzione e il panico che richiede ogni poema per essere letto, “Il passeggero” di Cormac McCarthy, edito da Einaudi. L’autore, lo si sa, è cruciale nel passaggio di millennio. Per Harold Bloom è ciò che nel Novecento è Wallace Stevens. Per me, insieme a DeLillo, definisce letterariamente la mia contemporaneità. Non è il momento di stendere considerazioni strutturate – di recensioni, ovviamente, non è nemmeno il caso che stiamo a parlare. Volevo soltanto appuntare una piccola nota. L’impressione più acuta e struggente, che ricavo avendo letto la prima metà del libro, riguarda la disperazione che prende non so se me o lo scrittore o chi altri legge o chi vive come personaggio nel testo: la disperazione nell’affrontare l’infinito, che non lo è. L’infinito che percepisce l’umano non è davvero infinito. E’ una infinitudine, ma non si trascende: un infinitudine e non l‘infinito. McCarthy espone tutti e tutto all’affaccio e all’incontro e allo tsunami lento e veloce dell’infinito a cui siamo esposti, sempre più esposti e mai definitivamente. La sommatoria di parole, espressioni, ritmi, sagome, persone e personaggi, arredi, location, paesaggi, oggetti, particolari, emozioni, vincoli relazionali, fatti, storie, descrivibilità, pezzi di ambiente e di ambientazione, flussi determinati ma indeterminati di pensiero, che si coagulano e si sciolgono a un ritmo vorticoso eppure lento, aggregandosi transitoriamente intorno a un personaggio femminile e uno maschile che si chiamano “Western”: ecco il set narrativo, il processo più oceanico che fluviale e che molti critici hanno indicato come entropico, la materia a gorghi di ciò che si diceva sopra: il poema. Non è più questione, né mai lo è stata, di prosa e poesia, di dialoghi con le virgolette o senza, di coro o personaggio, di tragedia o epica. Posizionato negli Ottanta, agli inizi visibili dell’accelerazione che ha portato al salto quantico in cui ci troviamo oggi, oggi in cui non sono più il tempo e dunque la velocità a costituire categorie con cui ha senso interpretare questo fantasma molto concreto che è il reale in cui siamo immersi, “Il passeggero” opta per ciò che si potrebbe definire un sentimento platonico, profondamente platonico, della parola: l’uno e i molti, io o noi o loro e l’infinitudine, tutti i canoni dimenticati ma digeriti e indimenticabili, un trascinamento nostalgico verso il futuro a partire da un passato psicotico, un eterno presente psicotico che ci fu davvero e che ha la sua rappresentazione in pagine alterate dal corsivo, prima che l’allucinata psicotica si suicidi, non riuscendo del tutto a suicidarsi. E’ un grande poema, una testualità per così dire nuovissima e anche molto antica – cioè è davvero all’altezza del tempo storico e non storico che stiamo vivendo, venendo scritta con tutti i crismi che fu la storia, ma perdendosi nel guadagno che si trae dallo scivolare verso i lidi del nostro adesso, del nostro qui, di quello che saranno probabilmente le parole ora, tra un istante, negli anni a venire, nell’eone futuro in cui ci siamo accorti ora finalmente di esserci inseriti.