L’ossatura di Moby Dick è necessariamente veterotestamentaria? Questa è la vulgata critica: sì, non si prescinde dai riferimenti biblici nell’esegesi del testo di Melville, che a sua volta è un’elaborazione dinamica e ipernarrativa dell’esegesi. Di questo sguardo morto, perché novecentesco, non mi interessa nulla, se penso a quanto ho da fare con una materia che è, soprattutto, universale. Il tentativo sarà quello di togliere all’ossatura la sua pellicola scritturale, senza sostituirla con alcunché di culturale secondo la valenza che il Novecento ha concesso all’aggettivo. O si supera il piano delle Scritture e si sfonda il livello degli archetipi, o l’opera è fallita.
Di seguito, un inedito intervento che costruisce analogie tra un commento di Sant’Ambrogio e Moby Dick. Già in questa analisi, che pone Nabot a fianco di Achab, io ritrovo nuclei che non possono essere esclusivamente ascritti alla Bibbia. Non guardo al sincretismo: guardo all’epoché praticata, che si condensa in immagini e parole distanti dall’evenienza scritturale del cosiddetto sacro. Mi interessa l’universale, cioè il tragico, come fenomeno generalizzato della coscienza che si incarna, e non come genere o come eventualità psichica.
[da LONGINO Letterature]
De Nabuthae Historia – Traduzione I 1-3
La storia di
Nabot, anche se rispetto al tempo è antica, per quanto riguarda la
pratica è cosa di tutti i giorni. Chi infatti, fra i ricchi, non brama
ogni giorno i beni altrui? Chi, fra i più facoltosi, non cerca di scacciare
il povero dal proprio campiello e di allontanarlo da confini della campagna
dei suoi antenati? Chi è contento di quanto possiede? A quale ricco
la presenza di un possedimento vicino ai propri non infiamma l’animo?
Achab non è certamente nato una sola volta, ma quel ch’è peggio
è che Achab nasce ogni giorno in questi tempi. Se ne muore uno solo,
ne sorgono moltissimi altri, e sono di più quelli che rubano, che quelli
che lasciano. Il povero Nabot non è stato ucciso una sola volta: Nabot
è abbattuto ogni giorno, il povero è ucciso ogni giorno. Il genere
umano, scosso da questo timore, si arrende. Dalle proprie terre il povero
migra coi suoi figlioletti carico del proprio figlioletto, la moglie
lo segue piangendo come se stesse seguendo il marito al sepolcro. Tuttavia
si dispera di meno quella che piange i funerali dei suoi cari, poiché
anche se ha dovuto perdere il sostegno del marito, ne conserva il sepolcro,
anche se non ha figli, tuttavia non li compiange come esuli, non geme
per la fame della tenera prole, più grave dei funerali. Fino a che
punto, ricchi, estenderete la vostra insana cupidigia? Volete forse
abitare la terra da soli? Perché cacciate chi ha la vostra stessa natura
e ne rivendicate per voi il possesso? La terra è stata fondata in comune
per tutti, ricchi e poveri: perché ricchi vi arrogate il diritto di
proprietà del terreno? La natura, che genera tutti quanti poveri, non
conosce ricchi. Infatti non nasciamo né con indumenti, né siamo generati
con oro ed argento. La natura ci dà alla luce nudi, bisognosi di cibo,
vesti e bevande, nudi ci riprende la terra che ci ha generati, essa
non può racchiudere nel sepolcro i confini dei nostri possedimenti.
Una piccola zolla di terra è più che sufficiente allo stesso modo
tanto per il povero che per il ricco, e la terra, che non poteva contenere
il desiderio del ricco mentre era in vita, adesso contiene tutto quanto
il ricco. Quindi la natura non sa distinguerci quando nasciamo, non
lo sa fare quando veniamo a mancare. Essa crea tutti simili, rinchiude
tutti simili nel grembo del sepolcro. Chi distingue i ceti dei morti?
Scopri la terra e se puoi individua il ricco. Scopri dopo un po’ di
tempo il tumulo e, se lo riconosci, indica il povero, a meno che non
lo riconosce per il solo fatto che col ricco muoiono anche tanti oggetti.
Vesti di seta ed indumenti intessuti di oro, ai quali ambisce il corpo
del ricco, danni dei vivi, non sono aiuti per i morti. Mettiti il profumo,
ma sei fetido; perdi la gratitudine altrui, né acquisti la tua. Lasci
eredi che litigano.
Analisi
Il “De Nabuthae
Historia”, redatto da Sant’Ambrogio tra il 385 ed il 390 d.C. è
un’opera di esegesi biblica basata sul presupposto critico fondamentale
che gli episodi, le narrazioni presenti all’interno delle Sacre Scritture
costituiscano paradigmi universali della vita dell’uomo. Desumiamo
l’applicazione di questo principio sin dalla primissima frase di quest’opera
nella quale si afferma che la vicenda di Nabot (narrata in 1 Re 21)
pur essendo storicamente rintracciabile e definibile, in verità non
fa che rappresentare una pratica umana, purtroppo, comunissima. Ancora
più esplicite in questo senso sono le successive affermazioni di Ambrogio
laddove egli scrive che Achab nasce ogni giorno, usando tra l’altro
un’espressione retoricamente piuttosto elaborata e certamente molto
efficace che delinea nell’autore la piena padronanza dei contenuti
letterali e poi allegorici, sarebbe meglio dire in questo caso paradigmatici
o esemplari, delle Scritture, una padronanza che certamente gli deriva
dalla lettura di esegeti orientali come Origene.
La paradigmaticità
del fatto biblico storico viene poi naturalmente sfruttata da Ambrogio
per trasmutare nel corso dell’esposizione il dato strettamente esegetico
in una dura invettiva morale contro i costumi del presente: ciò che
è vetus viene recuperato e compreso in vista della comprensione
e critica del presente, uno dei principi fondamentali per qualunque
studioso di antichità.
Achab è quindi
per Ambrogio l’empio simbolo dell’avidità ed in senso più specifico,
e storicamente molto interessante, è simbolo dell’avidità terriera.
In effetti il problema espresso in modo assolutamente essenziale dalla
vicenda di Achab e Nabot è stato importantissimo, complesso ed ampiamente
discusso nel corso della storia umana, ed in maniera particolare nel
corso della storia romana, che più aveva dovuto interessare lo stesso
Ambrogio, formatosi secondo i canoni dell’istruzione classica. Un
caso eclatante è, in questo senso, quello dei Gracchi, i quali cinquecento
anni circa prima di Ambrogio tentano proprio di risolvere il problema
dell’espansione dei latifondi a scapito della piccola e media proprietà
terriera. Possiamo certamente affermare che all’epoca di Ambrogio
questo problema, che comprende non solo questioni economiche, ma anche
sociali, politiche ed etiche, fosse ancor più accentuato che all’epoca
della Roma repubblicana, dal momento che non siamo più troppo lontani
dalla formazione di un sistema economico propriamente feudale, soprattutto
se pensiamo al fatto che ormai in età dioclezianea la divaricazione
rigidamente bipolare fra ricchi e poveri, ovvero onestiores
ed humiliores, si è decisamente affermata. Il nostro testo,
con la sua dialettica fortissimamente antitetica, che contrappone continuamente
i divites ai pauperes, non fa che confermare la rigidezza
della divaricazione sociale del tardo impero.
Il presupposto
psicologico sul quale si basa l’avidità, che argutamente Ambrogio
individua in una domanda retorica (Quis contentus est suo?) in
cui è significativamente abolita la contrapposizione ricchi/poveri,
e vedremo perché, è l’incontentabilità dell’uomo, un’incontentabilità
che secondo Ambrogio risulta direttamente proporzionale alla quantità
di beni di cui si dispone, come desumiamo dalla domanda retorica, che
segue immediatamente quella prima citata, in cui Ambrogio si chiede
Cuius non inflammet divitis animum vicina possessio? Si possono
fare diverse considerazioni su queste due domande. Una prima considerazione,
di carattere stilistico, evidenzia come il testo probabilmente derivi,
come la maggior parte delle opere antiche di esegesi biblica, da un’omelia,
quindi da una composizione rivolta oralmente all’uditorio, un uditorio
che nell’ascoltare viene più facilmente coinvolto, presta maggiore
attenzione se chiamato direttamente a rispondere ad un interrogativo,
se chiamato direttamente a riflettere. A prescindere comunque dall’originario
fine aurale della composizione la grande efficacia nell’ottenere il
coinvolgimento rimane identica nella scrittura e così questa considerazione
stilistica risulterà molto utile per dimostrare l’importanza del
divitis nella seconda domanda e la sua complementare assenza nella
prima. Il lettore o l’ascoltatore infatti, che sia ricco o che sia
povero, deve sentirsi necessariamente coinvolto nell’accusa sottesa
alla prima domanda, l’accusa della universalità del “peccato”
di incontentabilità. D’altro canto questa domanda, che scuote la
coscienza dell’uditorio nel suo complesso, è incastrata fra domande
retoriche scandite tutte dai genitivi divitum, opulentissimorum,
divitis. Ambrogio vuole quindi dire che chi ha molto dato ascolto
al proprio sentimento di insoddisfazione materiale ed è riuscito ad
accumulare beni in quantità, ha ottenuto tutto fuorché la contentezza,
la soddisfazione che originariamente inseguiva, anzi il suo desiderio
di possesso viene incrementato ulteriormente dalla visione di beni facilmente
accessibili. È questo l’attacco destinato esclusivamente ai ricchi,
che non fanno che accumulare beni che Ambrogio, e vedremo meglio perché,
considera damna viventium. Una breve riflessione su quanto detto
sin’ora può poi indurci a definire meglio la figura dell’autore
del nostro brano come un politico moderato ed un estremista morale.
L’estremismo morale, genuinamente cristiano, deriva dal fatto che,
avendo individuato come radice negativa la non contentezza del “proprio”,
comune a tutti gli uomini, ed implicitamente consigliando così di accontentarsi
di ciò che si ha, ma allo stesso tempo affermando, più avanti nel
testo, che tutti gli uomini nascono nudi, cioè privi di ogni cosa,
il ragionamento, sulla base delle parole stesse dell’autore, ci spingerebbe
a proporre Sant’Ambrogio come un pauperista, appunto, estremo. D’altro
canto, però, e di qui dobbiamo riflettere sul moderatismo politico
di Ambrogio, il diritto alla proprietà non viene negato, ciò che viene
messo in discussione è la pretesa dei ricchi di avere essi soltanto
questo diritto (ius soli), è in relazione a questo che Ambrogio
impianta la sua retorica “giusnaturalistica” sulla impossibilità
di distinguere per natura, alla nascita, i ricchi dai poveri.
Il povero quindi, come il ricco, sentendosi coinvolto dalla domanda
sulla soddisfazione, è in verità semplicemente incitato a non pretendere
più di ciò che ha ottenuto in eredità. La povertà e l’umiltà
proposte dalla morale di Ambrogio sono sì estreme, ma il loro risvolto
è limitato alla vita dello spirito, non a quella materiale. Il povero
quindi non deve rinunciare ai suoi miseri possedimenti aviti, anzi Ambrogio
difende proprio strenuamente la conservazione delle proprietà di generazione
in generazione e rappresenta, nel suo discorso, la tragedia dell’abbandono
della terra dei propri avi in uno stile fortemente patetico, e per le
immagini evocate, e per la scelta terminologica, ma anche per il rallentamento
ritmico ottenuto grazie all’ampliamento del periodo rispetto ai passi
immediatamente precedenti. Quella dell’esilio è per Ambrogio una
morte, se non qualcosa di peggiore della morte ed il nostro autore ha
tutte le ragioni per affermare qualcosa del genere, perché era davvero
tragica la situazione dei poveri che arrivavano a perdere anche il proprio
appezzamento di terreno, poiché oltre al trauma psicologico, che certamente
ne derivava, si rischiava facilmente di finire dalla povertà all’indigenza
assoluta, che poteva poi spingere queste persone a diventare schiavi,
cioè non persone, secondo le categorie antiche, che rimasero a lungo
radicate anche dopo l’avvento del cristianesimo con la sua critica
radicale alla schiavitù. Domina quindi, in relazione a questi argomenti,
il campo semantico della morte, sia in maniera esplicita (bustum,
funerea, sepulchrum, species mortuorum, tumulum, pereunt) sia con
espressioni di tristezza ed orrore (sequitur inlacrimans, deplorat,
deflet, amisit praesidium, dolet, ingemit, nudos recipit terra, damna
viventium), che arrivano anche a sfiorare suggestioni “gotiche”,
pur essendo il termine decisamente anacronistico, quando ad esempio
Ambrogio dice: Eruderato paulo post tumulum et, si cognoscis, egentem
argue nisi forte hoc solo… .
È questa stessa scelta stilistica che conduce l’autore alla creazione
del paradosso espresso dalla domanda “Numquid soli habitabitis
super terram?, che si spiega proprio grazie a quanto appena detto:
se i poveri vengono tutti esiliati, e diventano quindi schiavi, o comunque
individui non autonomi, e quindi sub- umani, ad abitare la terra rimangono
solamente i ricchi.
Tutto questo
ragionamento potrebbe infine essere sintetizzato dall’espressione,
che non a caso ho inserito tra quelle di tristezza ed orrore, damnum
viventium, riferita al lusso, alla ricchezza, alla brama di oggetti
materiali. La ricchezza è un danno dei viventi, un danno per i viventi,
una sorta di malattia, qualcosa che insidia la vita e che quindi porta
alla morte, sia per i ricchi, i quali, secondo il dettato del
Vangelo, non possono accedere al paradiso, quindi alla vita vera, stante
appunto la loro condizione di insaziabilità materiale, sia per i poveri
vessati dall’avidità dei ricchi, generata appunto dalla stessa accumulazione
di ricchezze. La ricchezza e l’avidità che ne consegue sono aspetti
esecrabili dell’uomo perché generano dolore e morte.
Un’altra
interessante considerazione da fare intorno a questo testo riguarda
la sua apparentemente stupefacente laicità di forma e contenuto. Pur
essendo il testo di un vescovo, certamente fra i più rigidi dell’antichità
cristiana (come dimostra la sua posizione nella questione sulla statua
della vittoria) e pur prendendo spunto da una storia tratta da un testo
sacro, l’argomentazione segue dei canoni assolutamente tradizionali
per la letteratura latina profana (il legame con la terra, la perversione
del lusso etc.), ma addirittura a livello compositivo è impossibile
non rimanere colpiti nel momento in cui, laddove sarebbe più che lecito
aspettarsi da una autore cristiano il nome di Dio, cioè dove si parla
di creazione del mondo, dell’uomo e così via, riscontriamo la presenza
del termine natura, termine proprio della letteratura filosofica
profana greca e latina, né tra l’altro riscontriamo altri riferimenti
all’Antico od al Nuovo Testamento a supporto delle tesi esposte (immediato
poteva essere un rimando esplicito al comandamento “non desiderare
la cosa d’altri”), le quali vengono sostenute con il solo supporto
della retorica e della logica. Anche se la nostra analisi si riferisce
soltanto ad un breve estratto dell’intera opera, i dati sin qui analizzati
hanno comunque un loro valore particolare, visto che l’estratto costituisce
comunque l’inizio dell’opera stessa ed è pertanto comunque assolutamente
fondante.
Sant’Ambrogio
e Moby Dick
Un risvolto
di quest’opera di Ambrogio che sarebbe molto interessante approfondire
più minutamente riguarda l’eventuale influsso che essa potrebbe aver
avuto sulla creazione del personaggio di Achab nel romanzo di Melville
Moby Dick. Posto che Melville ha tratto ispirazione per il suo
personaggio prima di tutto dal libro dei Re (Moby Dick è ricchissimo
di citazioni bibliche dirette ed indirette), è quantomeno curioso osservare
le consonanze piuttosto accentuate tra l’interpretazione di Ambrogio
del personaggio biblico e la rielaborazione narrativa operata da Melville.
Abbiamo infatti detto che Ambrogio estrapola da un racconto biblico
scarno ed elementare la personificazione di una avidità “diabolica”
che desidera avere continuamente, senza fermarsi di fronte a nulla,
un’avidità caratteristica dei ricchi, ai quali preoccupato il nostro
autore, in un accesso di ciceronismo, arriva a chiedere Quousque
extenditis, divites, insanas cupiditates?
Ebbene l’Achab di Melville è proprio un uomo che ricerca qualcosa
in maniera insana, sacrificando l’intera sua vita nel tentativo di
ottenere questo qualcosa, arrivando a comportamenti estremi, quali l’isolamento
dal resto del mondo (quello della terraferma perché è sempre per mare,
ma anche quello della ciurma della sua stessa nave), un isolamento,
quello di Achab che ci fa quantomeno tornare alla mente il paradosso
posto da Ambrogio, anche perché la sua solitudine è confortata solamente
da pochissimi altri eletti (ricchi) presenti sulla sua nave. Certamente
il “qualcosa” che ricerca il capitano di Melville ha a sua volta
un valore simbolico molto ampio, sul quale qui non possiamo dilungarci:
la ricchezza dell’Achab di Melville è una ricchezza spirituale superba,
ulissiaca, che stimola alla ricerca di un (del) principio assoluto,
quale la balena bianca viene a configurarsi nel corso di un romanzo
che è ricolmo di richiami più o meno espliciti a significati allegorici.
Certamente, però, fortissima è la consonanza degli esiti tanto dell’avidità
dei “ricchi” di Ambrogio, quanto della foga vendicatrice del personaggio
di Melville: entrambe le interpretazioni, l’una letteraria e l’altra
prettamente esegetica, della storia di Achab e Nabot conducono all’idea
di morte.
Il tema della
morte, e lo stile che ne consegue sono centrali nell’interpretazione,
a distanza di diversi secoli, di uno stesso passo biblico, che di per
sé non darebbe molto adito a rappresentazioni così caratteristicamente
imperniate su questo tema e questo deve quantomeno metterci sull’attenti
nel momento in cui desideriamo ricercare le possibili fonti di ispirazione
di un’opera letteraria ed in particolare di un’opera letteraria
come Moby Dick, frutto innegabile di una redazione dotta e documentatissima.