Walter Siti: da Il romanzo sotto accusa

waltersitirom.jpgAll’interno della mappa einaudiana che Franco Moretti ha dedicato a Il romanzo, c’è un articolato quanto fondamentale saggio di Walter Siti [nella foto a destra; qui la recensione del suo Troppi paradisi], che si intitola Il romanzo sotto accusa e di cui propongo un capitolo.

La fine dell’oscenità.
Se si volesse costruire una tipologia, o una casistica, dei processi intentati ai romanzi nei vari tempi e paesi, si finirebbe inevitabilmente con il disperderci in mille eccezioni; tra due romanzi a cui si attribuisca, in uno stesso periodo, un pari grado di «nocività», è solo il concorso delle circostanze a decidere perché uno viene processato e l’altro no, o perché uno viene condannato e l’altro assolto. La mappa, tra l’altro, non renderebbe conto della reale pressione sociale sul romanzo, perché anzi là dove la pressione è massima la censura è preventiva e non si svolgono processi; è tipico il fatto che una maggiore «densità» di processi consegue spesso a momenti di liberalizzazione (per esempio in Francia dopo la nuova legge del 1881, o in Inghilterra dopo il 1959, o in Russia dopo le aperture kruscioviane dei primi anni Sessanta). Ugualmente impossibile da documentare in breve è il larghissimo fenomeno dell’autocensura; molti romanzieri, in vari tempi e paesi, avrebbero potuto ripetere con buona approssimazione quel che ha scritto Leonardo Sciascia nella postfazione al Giorno della civetta:

Non mi sento eroico al punto da sfidare imputazioni di oltraggio e vilipendio; non mi sento di farlo deliberatamente. Perciò, quando mi sono accorto che la mia immaginazione non aveva tenuto nel dovuto conto i limiti che le leggi dello Stato e, più che le leggi, la suscettibilità di coloro che le fanno rispettare, impongono, mi sono dato a cavare, a cavare (92).

Si possono tutt’al più individuare delle costanti e delle linee di tendenza; la tendenza principale, in Occidente, è certo il passaggio da una società ossessionata dal pericolo dell’eresia verso una società sicura del proprio potere omologante. La divisione del lavoro ha relegato la letteratura in un ruolo sempre più inoffensivo, oscillante tra l’intrattenimento e il museo. Nel Seicento per aver scritto un romanzo ci si poteva rimettere la vita, ora in genere i processi contro la letteratura finiscono con delle assoluzioni e delle figuracce per chi accusa. La denuncia presentata nel 1956 contro Ragazzi di vita costò psicologicamente molto a Pier Paolo Pasolini, e contribuì a orientarne il destino di autore; ciò non toglie che nella sentenza il giudice quasi si scusi del processo e tenga ad assicurare che il dibattimento si è svolto «in un clima di serena elevatezza» (93). In un libro del 1968, Charles Rembar proclamava la «fine dell’oscenità» e profetava fiducioso «ormai se uno scrittore è almeno un poco scrittore, lui e il suo libro non hanno niente da temere» (94).
Costante è l’effetto di réclame che una proibizione ha sul libro proibito; è quel che riconosce Flaubert a proposito della Bovary; già ai tempi dell’Inquisizione si leggeva l’Indice per vedervi segnalate le opere interessanti; Diderot riassume per tutti nella Lettre sur le commerce de la librairie: «quante volte il libraio e l’autore, se avessero osato, non avrebbero detto ai magistrati: “Signori, una condannina, per favore”?» (95). L’autorità si sente sempre meno «tutore» o «sentinella», e anche la Chiesa insiste sempre di meno sulla «fragilità della natura umana»; il problema dei «più deboli», d’altronde, sembra risolto con la logica dei consumi differenziati. L’alternativa tra bellezza formale come attenuante (nella Ratio studiorum dei gesuiti i classici sono permessi «per l’eleganza e la proprietà della lingua» (96)) e bellezza formale come aggravante (la Bovary è considerata tanto più pericolosa in quanto Flaubert vi ha speso «tutti i prestigi del suo stile»(97)) tende a svuotarsi di significato, di fronte a un mercato che giustappone livelli diversi, e inconfrontabili, di dignità formale.
Un progresso di libertà certo c’è stato, e anche un progresso di comprensione di come funziona un organismo romanzesco; un discrimine si è posto, mi pare, proprio con la legge inglese del 1959, con la proibizione di giudicare un libro in base a frasi ritagliate arbitrariamente e l’obbligo di considerarlo «as a whole» («come un tutto»). Nella stessa direzione va l’obbligo di distinguere tra il «risultato» di un testo e l’intenzione dell’autore. Resta vero comunque che le guarentigie non sono mai date una volta per tutte, che le accuse di oscenità o di blasfemia o di diffamazione spesso sono la copertura per una condanna politica, e che il tasso di tolleranza si abbassa drasticamente in situazioni d’emergenza (indimenticabile il grido di rimpianto di Solochov, al XXIII Congresso del Pcus, per «quando si giudicava senza la delimitazione severa degli articoli del Codice penale, ma lasciandosi guidare dalla coscienza rivoluzionaria della giustizia» (98)).
Curioso è il rapporto che da sempre il romanzo ha instaurato con l’allegoria: di ricerca di protezione, si direbbe, e contemporaneamente di diffidenza. È grazie all’allegoria se un romanzo «licenzioso» come l’Asino d’oro di Apuleio ha passato indenne il Medioevo; Defoe ricorre confusamente all’allegoria per difendere il suo Robinson; per difendere Lady Chatterley se ne propone una lettura allegorica (la paralisi di Clifford come paralisi della società moderna, ecc.). Ma i regimi totalitari, quando vogliono condannare un romanzo, ne sottolineano interpretazioni allegoriche che l’autore deve affrettarsi a smentire: di fronte agli accusatori, che interpretano Divisione cancro come un’allegoria della società sovietica (vista appunto come un «tumore incurabile»), Solzenicyn risponde «ci sono troppi dettagli medici per un simbolo» e conclude «se qualcuno di voi sarà ospedalizzato, vedrà se si tratta o no di un’allegoria» (99).

Che il fanatismo religioso messo alla berlina nei Versi satanici fosse un’allusione alla situazione presente in Iran è stato uno dei sospetti che hanno portato, nel 1989, alla fatwa di Khomeini contro Salman Rushdie (100) Bastano pochi gradi di longitudine e latitudine, e ancora per aver scritto un romanzo si può rischiare la condanna a morte. Al di là delle contingenti ragioni politiche che l’hanno favorita, la sentenza contro Rushdie ci riporta all’inizio di tutto questo discorso: a leggere i più intelligenti degli attacchi di parte iraniana, appare chiaro che sotto l’indignazione per gli insulti alla religione musulmana (la città del profeta chiamata «Ignoranza», le prostitute di un bordello che hanno gli stessi nomi delle mogli di Maometto e così via) il vero peccato imperdonabile è quello di aver trattato la parola rivelata come se fosse letteratura immaginaria. Non è tanto l’episodio in sé dell’interpolazione diabolica dei versetti (episodio non inventato da Rushdie, tra l’altro, ma presente nella storia della tradizione coranica); da un punto di vista «filologico» i Versi sono meno sovversivi di certi studi accettati e discussi nelle università islamiche; a essere intollerabile è l’idea che il testo letterario sia più potente del testo sacro, che lo possa inglobare facendone materia narrativa e inserendolo nel flusso mobile delle passioni – sottomettendolo di fatto alla legge romanzesca dell’et-et invece che a quella dell’aut-aut che garantisce al testo sacro la propria fissità e per ciò stesso la propria autorità. «La sola idea, – scrive Amir Taheri, un giornalista iraniano autore di una biografia di Khomeini, – di usare il profeta Maometto come personaggio in un romanzo è insopportabile per molti mussulmani» (101).
Vargas Llosa, in La verità delle menzogne, nota che le culture religiose producono poesia, teatro, ma raramente grandi romanzi. Il romanzo è un’arte delle società in cui la fede si sta sgretolando. Il romanzo è modellato sul testo sacro, ma ne è anche un surrogato e una parodia. Quante vite degli eroi di romanzo sono in realtà delle «imitationes Christi»! Il testo sacro, soprattutto il nostro, la Bibbia, è strutturato narrativamente; il suo compito è di dare senso al mondo senza passare dall’astrazione logica e matematica, ma usando la concretezza delle cose reali. Il testo sacro però ha bisogno di frenare l’ambivalenza e la perpetua germinazione della realtà, garantendone il significato una volta per sempre.
Il romanzo, all’incontrario, si brucia nella frizione tra contingente e assoluto, senza ammortizzatori: il suo allegorismo è sempre imperfetto e ha un costante complesso di inferiorità di fronte alle variazioni dell’oggi. Non per caso il protagonista del romanzo di Hardy si chiama Jude: è il «negativo» di Cristo, un «prete mancato» che getta nel fuoco i suoi libri di teologia e il cui figlio muore atrocemente per aver preso tutto alla lettera (102). Il romanzo è una sfida al testo sacro, perché se è vero che «spicciola» l’assoluto nella cronaca, è anche vero che ha il coraggio di affrontare i mille volti mutevoli dietro cui l’assoluto continuamente si maschera. «L’uomo è la più grande scimmia che pensa di dover imitare tutto», malediceva Heidegger nel 1698; ma, una quindicina d’anni dopo, Leibnitz volgeva la cosa in positivo: «nessuno imita nostro Signore meglio dell’inventore di un bel romanzo» (103). Mentre la poesia può essere un’emanazione allucinatoria del Verbo divino, il romanzo è un’alternativa all’azione di Dio, quando Dio ha cessato di agire – un’alternativa imprecisa e impotente: il Diavolo cacciato che si masturba lontano dai cieli, è un romanziere.

La progressiva legittimazione del romanzo ha dunque accompagnato il percorso della democrazia, e il passaggio dalla necessità del testo sacro alla relatività delle regole di una convivenza civile. La libertà di narrazione sembra, in Occidente, non avere più limiti, se non forse quelli posti dalla democrazia stessa. Un racconto che in tutta serietà esaltasse il razzismo o auspicasse i campi di concentramento, avrebbe anche da noi vita difficile (Io e mio figlio, della svedese-keniota Sara Lidman, ha avuto problemi nonostante che il discorso razzista fosse affidato a una «voce di personaggio»). Non credo che si arriverebbe a una sentenza di morte (chi ha dichiarato «comprensione» per la fatwa di Khomeini lo faceva con una sorta di paternalismo da capanna dello zio Tom), ma qui comincia, per noi occidentali e per il romanzo, la riflessione da fare.
Il «contagio» romanzesco è quasi auspicabile, ormai, in un’epoca che dietro i giganti di don Chisciotte non sa vedere che il Mulino Bianco; confrontata con l’irrealtà quotidiana, l’irrealtà romanzesca conserva qualcosa di nobile e di ascetico. In quella «summa» sull’utilità e sul danno dei romanzi che è La torre di Babele (1996) di Antonia Byatt, da una parte si insinua, perfidamente, che persino la scelta antiletteraria della protagonista (sposare un uomo che «odia le parole») dipende dal suo «essere Lettrice» (è stata influenzata da Forster e da Lawrence), dall’altra alla fine si constata che, per la protagonista, tornare al proprio mondo di colti lettori significa ritrovare la libertà.
Ma l’indisciplina del romanzo è certamente più larga, e più ambigua, della libertà democratica. È ancora Vargas Llosa a sottolineare che nelle società perfettamente democratiche la storia e la fiction dovrebbero essere separate e distinte; è nelle società totalitarie che la storia e la fiction si scambiano di posto. L’Enciclopedia sovietica era piena di invenzioni quanto un romanzo; La città e i cani fu bruciato in una piazza di Lima come se si trattasse di memoria da cancellare. I romanzi occidentali (e soprattutto quelle «storie» romanzesche che usano supporti non cartacei, come il reality show televisivo) tendono a confondere sempre di più i confini tra realtà e fiction; è nostalgia regressiva da parte del romanzo, anarchica voglia di disobbedire e viltà nel dichiararlo (il dottor H. accusa di «lâcheté» Céline, querelandolo nel 1964 per Nord (104))? O non è anche percezione acuta di una passività che corrode la nostra democrazia?
«Ci abituiamo e lo shock scompare», dice l’accusatore nel processo a Lady Chatterley (105), marcando il punto in cui la tolleranza diventa anestesia. Invece che da un confronto aperto, anche durissimo, di opinioni contrapposte, ciò che è tollerabile e ciò che non lo è sembra essere deciso dall’inerzia del mercato (perché è esecrabile raccontare su Internet quanto sia sexy una bambina di undici anni, ma è accettabile fotografare su una rivista di moda una bambina sexy di undici anni?) Nella sua vocazione di aderire all’insensatezza del mondo, per riscattarlo da vicino, il romanzo sta forse cogliendo una mutazione politica. Impegnato a combattere contro la propria stessa inoffensività, cerca alleati tra i prodotti che il Potere usa per trasformare l’informazione in seduzione, e quindi in consumo – supinamente alleandosi a quelli, ma insieme inverandoli e facendoli vergognare. Romanzo «transfuga» allora, o romanzo «critico» della democrazia? Ecco una buona materia per il romanzo.

(92) L. Sciascia, Il giorno della civetta, Torino 1991, p. 119.
(93) Cfr. qui Apparato critico, p. 182.
(94) C. Rembar, The End of Obscenity, London 1969.
(95) D. Diderot, Lettre sur le commerce de la librairie, in id., Œuvres complètes, Paris 1976, tomo VIII, p. 556.
(96) Cfr. G. Raffo (a cura di), La «Ratio studiorum». Il metodo degli studi umanistici nei collegi dei gesuiti alla fine del secolo XVI, Milano 1989, p. 192.
(97) Cfr. la requisitoria di Pinard, in Flaubert, Œuvres cit., p. 621.
(98) La frase di Solochov è citata in Ghinsburg, Libro bianco cit., p. (81).
(99) Cfr. L’affaire Soljenitsyne cit., p. 226.
(100) Cfr. R. Aubert (a cura di), L’affaire Rushdie, Paris 1990.
(101) Articolo sul «Times» del 13 febbraio 1989, riprodotto in L. Appignanesi e S. Maitland (a cura di), The Rushdie File, London 1989, p. 93.
(102) Nel capitolo II della parte VI del libro, Sue si accusa del suicidio del figliastro: «Gli dissi che il mondo era contro di noi, ch’era preferibile essere fuori dalla vita piuttosto che starci a questo prezzo e lui l’ha preso alla lettera […] Volevo essere sincera. Non potevo sopportare l’idea di ingannarlo sulle vicende della vita. […] perché non gli ho raccontato compiacenti bugie, invece che mezze verità?»: T. Hardy, Jude the Obscure (1896) [trad. it. Jude l’oscuro, Torino 1990, p. 364. Traduzione di S. Cecchi d’Amico, leggermente modificata].
(103) La frase di Leibnitz è in una lettera del 26 aprile 1713, citata in E. Bodemann (a cura di), Leibnizens Briefwechsel mit dem Herzoge Anton Ulrich von Braunschweig-Wolfenbüttel, in «Zeitschrift des historischen Vereins für Niedersachsen», 1888, p. 232; quella di Heidegger in Bavaj, Mythoscopia romantica cit., p. 128.
(104) Cfr. la Notice a Nord, in Céline, Romans cit., p. 1153.
(105) Cfr. Rolph (a cura di), Processo a Lady Chatterley cit., p. 283.

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