Salvatore Agresta è un illuminato psicoterapeuta di cui ho pubblicato un fondamentale intervento, La psiche, il trauma e l’umano: il trauma è l’umano – un microsaggio che vale da solo a indicare la condizione dell’umano incarnato a cui guardo, all’empatia nella sua sorgività, nella sua scaturigine. Il merito di Agresta è trascinare il discorso al di fuori della letteratura tramite i magnetismi di cui la letteratura è fatta, che sono di natura sì psichica, ma anche metapsichica: una Cosa (per rievocare Lacan) che sta oltre i linguaggi, cioè oltre le possibilità di simbolizzazione e di conclusione, e che, definitivamente, ha i connotati aperti e non conchiudibili del “senso” (quali limiti possiamo conferire al “senso di vivere”, cioè al “sentimento che ci siamo, nudamente” e al “significato del nostro destino”?).
A proposito dell’intervento sulla testimonianza cieca evocata in APOCALISSE CON FIGURE, dove mi appoggio a Blanchot e Kafka, Salvatore Agresta mi invia un commento, individuando un parallelo con Bion, il grande teorico del superamento dell’analisi tramite l’analisi. Questo parallelo regge fisiologicamente, ma va discusso…
Ecco, dunque, il passo di Wilfred Bion che Agresta mi segnala nella sua mail, al solito suggestiva e precisa:
A proposito della “testimonianza cieca”, sono andato a riprendere un passo di Bion (da Addomesticare i pensieri selvaggi, pag.45) che trovo collegabile a quanto tu proponi. Si tratta di una descrizione dello stato psichico del feto o del neonato, stato psichico di cui conserviamo memoria indelebile continuamente riprodotta (continuamente produciamo inconscio), in un costante rumore di fondo dell’attività psichica.
Il feto “non ha modi adeguati di comunicazione e di espressione e per molti versi non ha granché da comunicare. Suppongo che il neonato potrebbe voler comunicare che è solo o che ha fame. E io, in questo peculiare modo in cui mi ritrovo ora, ho bisogno sia di nutrimento sia di qualcuno con cui comunicare, non perché abbia un sacco di cose da dire, ma perché mi ritrovo in uno stato mentale che mi è spiacevolmente familiare: in cui tutto quello che posso dire è di essere abissalmente – in senso letterale e metaforico – ignorante. Questo è uno dei motivi per cui ho una qualche urgenza di essere in grado di trovare una qualche rete in cui catturare qualsiasi pensiero disponibile”.
E’ proprio l’interpretazione di Agresta a colpirmi, più che il passo di Bion, su cui, qui sotto, appunto alcune osservazioni critiche. Il rumore di fondo dell’attività psichica viene da me reinterpretato come il suono delocalizzato, il suono della démi-voix che Deleuze intercetta in Kafka nel saggio suo e di Guattari sullo scrittore praghese (Kafka – Pour une littérature mineure – Editions de Minuit). Questo suono senza suono è la metafisica tutta, in espressione che sorpassa il testo ma si manifesta come sintomo del testo, che viene sottesa ad APOCALISSE CON FIGURE: un’unica nota mentale, che io convoco come “silenzio” intorno a una “parola insufficiente”. Il “silenzio” non è mai un non-essere, così come il vuoto non è un non-essere: è il “segno” della compossibilità totale da cui possono emergere i linguaggi e, al tempo stesso, la fine della comunità umana nella sua irrappresentabilità, che è l’oggetto dell’installazione testuale: cioè il confinamento e lo sterminio di milioni di persone, di ebrei schiacciati da un Male che sa di fare il male. Qui si deve a mio avviso fermare il linguaggio, cioè la finzione e la fantasia, qui non è possibile scrivere, poiché scrivere è sempre per finta – qui è il momento che il testo mostri la sua origine silenziosa e la sua fase terminale, che è ancora il “silenzio”. Qui l’umano sopravvive. Qui accade la Cosa: la sopravvivenza. Questo suono è uno sfondo, una nota mentale unica, il suono dei suoni per come noi, a questo livello in cui siamo, nello spazio e nel tempo, possiamo fare sorgere come irriducibilità dell’umano stesso, impossibilità di sopprimerlo.
Un passo successivo al silenzio è ciò che è il fondamento visibile della comunità emerge anch’esso. Bion formula questo passo con una supposizione: “Suppongo che il neonato potrebbe voler comunicare che è solo o che ha fame”. Questa supposizione getta il discorso di Bon in due direzioni: una, riduzionistica, per cui l’individuo, seppure in stato di sonno prenatale, è determinato da un’attività cerebrale che è portatrice di significati interazionali; l’altra, innatista, che prevede che l’organizzazione cerebrale dell’umano è predisposta fin dalla nascita all’espressione delle esigenze fondamentali per la sopravvivenza, e cioè l’intersoggettività è significativamente (il che presuppone autoconsapevolezza) preacquisita.
Nell’ipotesi bioniana, e non a caso, il muro che fa rimbalzare verso l’ipotesi è la paura del non sapere (lo stato di “non so” coincide con il “suono senza suono”): “Io, in questo peculiare modo in cui mi ritrovo ora, ho bisogno sia di nutrimento sia di qualcuno con cui comunicare, non perché abbia un sacco di cose da dire, ma perché mi ritrovo in uno stato mentale che mi è spiacevolmente familiare: in cui tutto quello che posso dire è di essere abissalmente – in senso letterale e metaforico – ignorante“. E’, va da sé, una prospettiva. L’altra prospettiva, che a me interessa, è che lo stato di non sapere, e cioè quello che Bion denota come “ignoranza”, non sia affatto spiacevole, sebbene sia familiare (diciamo “abitudinario” per sorgività: io mi incarno in quello stato, non ho esperienza se non riflessa e, soprattutto, non sono giunto alla mielinizzazione che mi consente la memoria, cioè la possibilità di esperienza per come la intendiamo comunemente. Sorgo nel non sapere che non è né piacere né dolore, sorgo senza parola e senza messaggio da comunicare, e soltanto l’impatto con la realtà configura in me bisogni, per cui, dal non sapere, esco con forme di richiesta, che si trasformano in esigenze comunitarie, in interazione che è da reclamare, poiché non è più naturalmente data come lo era nel momento in cui la mia interazione era l’amnio uterino in cui stavo. Che questi meccanismi siano innati come predisposizione riflessa non mi interessa, evidentemente: mi interessa la sostanza di cui sono fatti questi meccanismi innati, e l’ipotesi è che siano fatti di coscienza non autoconsapevole, cioè di silenzio che io non so di non sapere. La nota di fondo del testo, al contrario ma in continuità con questo stato estremo prenatale, è coscienza vuota in autoconsapevolezza (cioè: so di non sapere) – ma, su ciò, non si può dire molto, è il caso che l’epistemologia avanzi per fornire statuti che qui in occidente sono la patente per potere affermare una simile ipotesi.
A questa obiezione centrata su Bion, Salvatore Agresta mi ha risposto. E la sua risposta mi colloca: io scrivo esattamente con la postura che il mio fraterno interlocutore descrive in questa mail, che sono costretto a riprodurre, perché dice più precisamente e sinteticamente di quanto mai io possa fare:
Perfettamente d’accordo con la tua obiezione all’ “innatismo interazionale”, anche se l’ultimo Bion (quello di Memoria del futuro) lo aveva capito. E’ la stessa critica mossa ad esempio (ti cito a caso l’ultimo libro acquistato ieri) da Roberto Esposito al concetto di “persona” nel suo Terza persona (Einaudi), una critica alla “prevalenza presupposta del personale sull’impersonale”. Mi pare significativa quest’abbondanza di “convergenze parallele”, che da àmbiti assai differenti vanno su un unico punto: la necessità di sottrarsi a dispositivi escludenti (“psiche”, “persona”, “letteratura”…) per andare (ritornare) all’originaria unità dell’UMANO. Mi pare un segno dei tempi.
C’è molto da lavorare..