Nel Dies Irae, di cui prima o poi vorrei stendere un’autoglossa, non perché sia un romanzo oggettivamente fondamentale bensì perché esso è strapieno di intenzioni e derive che interessano me e quindi possono interessare alcuni lettori, all’interno della vicenda (vedi il significato che dò a questo termine qui, in un passaggio del saggio sul Personaggio Vuoto) del personaggio Giuseppe Genna, si parla di un libro, il Dies Irae, accumulo di cartafacci e aggiunte progressive, frutto di una composizione pluridecennale, praticamente illeggibile. Esso esiste realmente, anche se nel Dies Irae sta a simbolizzare l’oggetto narrativo inaugurato nella contemporaneità prima da William Burroughs con la stesura di Naked Lunch e poi inverato da Petrolio di Pasolini. Questo Dies Irae interno al romanzo pubblicato Dies Irae non sarà mai edito, anche perché dubito che una qualunque casa editrice sia interessata a pubblicarlo. Piuttosto, è stato concluso un accordo perché, una volta terminato, esso finisca, in una copia stampata a mano, coi piombi, in un determinato museo, mentre il suo contenuto andrà integralmente in Rete o quel che sarà la Rete quando lo finirò (o meglio: non finirò). Esso è strutturato in tre parti, di cui la prima è una cosmogonia che è anche una storia dell’individuo Giuseppe Genna: storia di storie, evidentemente, compresi sogni, venti psichici, eventi emotivi e reali, sonno senza sogni, vicende vissute, choses vue. Esso è composto per “installazioni”: la nomenclatura che ho scelto per una forma che non è prosa (non è narrazione di una storia), non è poesia (gli a capo non configurano versi secondo tradizione metrica) e non è nemmeno prosa poetica (non si rifà alla tradizione baudeleriana che fiorisce poi nel Novecento), disponendo tuttavia di ritmo e retorica e immaginario. In questo discrimine io mi gioco la mia letteratura: con tutta la possibilità di sbagliare che posso avocarmi. Alcune installazioni da questo libro sono già state pubblicate su questo sito: Pater, Kiefer – CENSIMENTO, Primo cronosisma, oltre che il Museo Trascendentale e la Fabula Orphica. Qui di seguito pubblico un trittico, che intende riprendere la traiettoria della figurazione retorica dell’arco voltaico che in Stretto di Paul Celan connette l’inizio del poemetto alla sua fine, identica ma disseccata. La situazione narrata, cioè l’occasione immaginativa, è un momento trascorso con un amico in una piccola valle in Slovenia. I tre passi del trittico sono essi stessi, uno per uno, delle “installazioni”, ma il trittico è esso stesso è un'”installazione”. Anche di questo testo inedito vorrei fornire, nei prossimi giorni, un’autoglossa.
A chi interessa, a chi può gradire il testo e a chi il testo può fare legittimamente schifo, buona lettura…