‘Una veridica istoria degli aggregati umani’ – Gadda da “Eros e Priapo” e Leopardi dallo “Zibaldone”

Una veridica istoria degli aggregati umani
di CARLO EMILIO GADDA

Una veridica istoria degli aggregati umani e de’ loro appetiti, dico una storia erotica dell’uman genere e degl’impulsi fagici e de’ venerei che lo suspingono ad atti, e delle sublimazioni o pseudo-sublimazioni pragmatiche di quelli, io mi credo ci rivelerebbono le cose inaudite: altro da «non voglio udire certe cose»! Il grande valore e ’l difficilmente contestabile merito di molti mémoires, come anche di quel genere di scritture che dimandiamo «romanzi» e confessioni, ed autobiografie, o lettere di madama a madama, in ciò consiste: che ne danno in vario modo e registro una imagine totale della vita (quando la danno): le non si chetano alla simplicità d’alcuni temi, o punti, e né si contentano d’abstrarli per nobbile e pure alquanto asinino arbitrio dal totale contesto d’una biologia. Intendi romanzi e mémoires e lettere lunghe d’oratori a palazzo e imbasciatori veritieri e di chi sappî fare, e prima l’abbî l’occhî a vedere: e ’l naso aguto a fiutare.
Se uno l’è un cervellino d’un càgnolo che mi va zoppo alla cerca de’ tartufi, e si crede che i’ ttartufo l’è il fungo venenoso che gli sta sopra a piombo, e fuor da terra, dove di sotto gli è ascoso i’ ttartufo, be’, allora. Ma se uno gli è un porcello bono d’imbasciatore o di memoratore, lui non ha manco fiutato il sitìo, che già principia a rugumare, a biasciare, e soffiare, e ad annasar co’ i’ ggrifo, e a raspar con l’ugne de li zoccoli, che ci hanno codesti scrittori, codesti imbasciatori e codesti porci a le lor zampe davanti; e dài, e grufola, e fiuta, e soffia, e biascia, e raspa, insino a tanto non gli ha cavato fuora la patacha: senza pure lui l’abbi tocco, quel papavero d’un fungo ritto.
«Certe cose!» Vien via! Hè, hè: una veridica istoria degli appetiti e degli impulsi delle anime! e degli aggregati di anime!
A far principio dalla colendissima famiglia, «base della società»: com’è veduto; quando la spartana madre o la spartana zia un gli parea vero di darglielo ar Baffo, il nipote o ’l figlio: da farne cadavero a gelo, o a mare nostro, o a la duna d’i’ ddeserto: per la immortale gloria del Baffo. A principiare dalla «santità della famiglia», che da cantarne le laudi e letàne eterne mai ti bastavano i più dilicati adiettivi, nomi, verbi, sorrisi, dentifrici. Cui s’adiungessino gargarizzi infiniti, e tremori, e rossori, e scodinzolamenti e sculettamenti e basci, con profonda e interior commozione de le budella, catarri, broda, cacca e soffianasi. Nulla mi è più caro della famiglia (che non ho): ma la verità va proferita anche incontro a famiglia.
L’io collettivo è guidato ad autodeterminarsi e ad esprimer sé molto più da gli istinti o libidini vitali, (che sono le fasi acquisite e le arcaiche e di già compendiate del divenire), cioè in definitiva da Eros, che non da ragione o da ragionata conoscenza (che d’è la fase in atto, o futura che tu te ne fabbrichi). Questo non ovunque, non sempre, ma di certo ove la gora del divenire si ristagna: e dove s’impaluda nelle sue giacenze morte la storia, e la «evoluzione» del costume. Ché te t’hai a ritenere un prencipio: gli impulsi creatori e determinatori di storia grossa e’ si immettono in nel miracolato suo deflusso per «quanti di energia», e non già in un apporto continovo. La storia grossa conosce le sue paludi, le more de’ sua processi, i ritorni, i riboboli inani, le stanche pause. Dovendo dire ne’ termini dell’algebra, dirò che l’impulso storico ed etico di storia grossa non è una funzione continua del vivere ossia del manicare e del defecare degli òmini. Si dinotano nella discesa storica le determinate e partite immissioni di contenuto, alterne a periochi morti o stanchi, debili o nulli. Così nel fiume reale vi discendono i sua fiumi influenti, ma l’uno appresso all’altro, e distinto ognuno per propia foce dal precedente, e seguente: duo Dore, Sesia, Ticino, e l’Adda e l’Oglio, e ’l Mincio: e Stura, e Bormida con Tànaro, e Trebbia.
In codesti lachi di storia grossa, dove non è chiamata del futuro, ivi Eros ammolla, e più facilmente infracida e bestialmente gavazza. Si credendo andare; e sta. E bada: non significo nel nome di Eros una pratica e spicciola e dirò comune dissolutezza e del dire e del fare, che le qualche volte ha funzione purgativa, o limitativa di bugia maggiore, o dirompente gli apodittici vincoli del gran castello de le bubbole (Plauto, Boccaccio: et similes). Che no, che no. Vo’ intendere tutt’al contrario la sicinnide, e l’orgia bacchica di tutti i sussulti affettivi non mediati: quando il modo ne venga recato a canone, a paradigma e a sistema di vita. (Prosunzione di dementi e di malfrullate: asini che si credano Mosé: facili affetti, facili parole, bona intenzione che non la costa nulla, subita avidità degli onori e de’ guadagni cavandoli del sangue fraterno; spedienti criminali da indorar la vulva alla ganza o da magnificare per marmora i’ ppropio cesso: fede [finta] in ne’ vangeli contradditorî l’un dell’altro: libidini travestite di patria: fingere il non avvenuto e il non a venire col farne mimo in asfalto e balletto di Via Culiseo e gabellare velleità per voluntà, e prurigine e inane sogno per opera perfetta: e berci, e trombe, e ragli: e spari di cannone voto di nave Puglia da tenere addietro i’ ttudesco, e lo schiavo.)
C’è poi da dire, amaramente, che i secondati istinti del vivere comune e, ben più, il magistero che ti viene da una sperienza lungamente professata o patita nel comune, servano, a volte, infin la causa di Logos. E me’ la servano, a volte, che lo infinito almanaccare e bavare e disquisire e disgiungere dello intelletto, sopra all’oceano infinito de’ sua lemmi, e de’ sua commi, bicorne o quadricorne ma cornutissimo di certo ch’egli è. A più spesso quaderno una analisi de’ documenti molti che possano, che debbano confortare l’asserzione. Valga qui essa non altro se non a ribadire come buon chiovo la opportunità di chesto consumato capitulo: del richiamarci, dico, a codesta diffusa «erotia» de la vita («normale» o anormale, però comune a tutte i vivi) prima di poter torre ad essamina la erotia d’una banda estrovertita nelle loro mostre.
L’atto di conoscenza, in genere, ha da radicarsi nel vero, cioè in quel quid ch’è stato vivuto, e non sognato, da le genti: ha da radicarsi in quel ch’è suto l’enunciato della storia, e con potenti ed onnipermeanti radìche: sì come di faggio, d’antico faggio, in ne’ cui rami superni fragorosamente, ma vanamente, lo stolto vento prorompe. Non può chetarsi a un bel sogno, o all’astrazione della teoretica pigrizia, da che l’omo buono è condutto, pur nolendo di suo cuore, ad errore. Dacché l’astrarre con abuso di lambicchi arbitratamente dagli involuti ed innumeri motivi della causalità una decina magra magra di preferiti motivi, coartandone d’una iscrittura di storia vera e vivuta una finta, e di poco inchiostro annotata e l’addarsi a filosofare e a giostrare intorn’a quelli, e ’l mingervi sopra tuttodì da man manca non costituisce filosofia, né storiografia, né politica: sì mero arbitrio, gnoseologico e pratico. Il desiderio e la prescia di edificare (e vada per i difici, as you like it!) non devano bendarci gli occhi sulla natura del terreno, quando l’Arno, da sotto, lo isvuota: sui «mezzi economici»: sui materiali e stromenti disponibili, cioè qualità vere (e non finte) delle anime, delle animacce nostre balorde: e men che meno sui limiti, alquanto scarsi all’opere e corti all’evento, o ritardati ad imagine di casa aliena, della nostra perizia di pappagalli, e sagacità di architetti da Babele.
Mba’, il mi’ ragionamento non è se non parte di uno più generale discorso: minima contribuzione a quel conoscere (novi, novisse) di cui maturerà la totale coscienza di un poppolo, ov’ella daddovero nasca, un giorno, e sussista: al quale atto, io ve l’ ridico, aranno eminente parte i periti, dagli istorici ai fisici, e lettori a Padova allo studio.
Con il qual dittato miro ancora a «fissare» nella loro luce bugiarda e lividamente funerea, e nella loro eternamente risibile bischeraggine, alcuni tripudiati e pomposi o perentorî e giacculati motti, con frasi e paràvole e formule, quali controsegnarono in nelle bocche de’ beventi (a chella fiasca) e per tutti muri della Italia vituperatissimi, doppo i richiami de’ naranzi e delle purgative pozioni, la fraudolenta verbalità de la cricca. Alcune esempia, intendo: ché una silloge compiuta la dimanderebbe l’ampiezza totalitaria d’un Lèxicon: ed io lo raccomando in idea, codesto Lèxicon, a quale de’ soprastanti vuomini l’abbî più viva ed esumante memoria, e intera e intrepida facultà d’ore e di studî ch’io non mi ritrovi a penna: stanco, e pervenuto al commiato. Ed e’ farebbe buon brodo di filologo, e a un medesimo andare di annotatore de’ costumi: le quali scritture vanno pari.

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La immaginaria perfezione assoluta
di GIACOMO LEOPARDI

Che cosa è barbarie in una lingua? Forse quello che si oppone all’uso corrente di essa? Dunque una lingua non imbarbarisce mai, perchè ogni volta ch’ella imbarbarisse, quella barbarie non potendo essere in altro che nell’uso corrente (altrimenti sarà barbarie parziale di questo o di quello, e non della lingua), non sarebbe barbarie essendo conforme all’uso. Barbaro nella lingua non è dunque altro se non quello che si oppone all’indole sua primitiva: e chiunque ponga mente, converrà in questo: giacchè in fatti una parola, uno scrittore barbaro ordinarissimamente sono conformi all’uso di quel tempo, lo seguono, ne derivano, e così accade oggidì nella lingua italiana. Di più, nessun secolo sarebbe mai, o sarebbe mai stato barbaro per nessuna lingua. Al più si potrebbe dire se quella lingua di quel tal secolo fosse più o meno bella, ricca, buona, ec. confrontando fra loro i secoli di una stessa lingua, come si confrontano le diverse lingue fra loro, delle quali se questa o quella si giudica men pregevole, non perciò si giudica barbara. Anzi si chiamerebbe barbara se contro l’indole sua, volesse adottare e accomodarsi all’andamento di una lingua migliore più bella ec. come se la lingua inglese volesse adottare le forme della greca ec. Insomma barbarie in qualunque lingua non è nè la mancanza di qualsivoglia pregio, nè quello che contraddice all’uso corrente, ma quello solo che contraddice all’indole sua primitiva, per conservar la quale ella deve conservarsi anche meno pregevole, se tale è la sua natura, perchè i pregi essendo relativi, sarebbe vizio e bruttezza in lei, quello ch’è virtù e bellezza in un’altra, se si oppone alla sua natura in cui consiste la perfezion vera (benchè relativa) non solo di una llngua, ma di ciascuna cosa che sia.

Da queste osservazioni particolari; facili, chiare, e di cui tutti convengono, salite dunque ad una più generale, ma tanto vera quanto le precedenti, e che non si può negare se queste si riconoscono, e concedono. Che cosa è barbarie nell’uomo? Quello che si oppone all’uso corrente? Dunque nessun popolo, nessun secolo barbaro. Barbarie è quel solo che si oppone alla natura primitiva dell’uomo. Ora domando io se i nostri costumi, istituti, opinioni ec. presenti sarebbero stati compatibili colla nostra prima natura. Come potevano esserlo, quando anzi la natura ci ha posti evidentemente i possibili ostacoli? Che non siano compatibili colla nostra primitiva natura, è così manifesto, anche per la osservazione sì di ciascuno di noi, sì de’ fanciulli, selvaggi, ignoranti ec. ec. che non ha bisogno di dimostrazione. Dunque se non sono compatibili, è quanto dire che le ripugnano e contrastano. Dunque? dunque son barbari. Che sieno conformi all’uso e all’abitudine, non val più di quello che vaglia la stessa circostanza a scusare un secolo depravato nella lingua. Che si stimino buoni assolutamente, e più buoni de’ naturali e primitivi, primieramente non val più di quello che vaglia nella lingua, come ho detto; poi, siccome nella lingua, questa opinione è erronea, e deriva dall’inganno parte dell’abitudine, parte della immaginaria perfezione assoluta, là dove è sostanzialmente imperfezione e vizio tutto ciò che si oppone all’indole e natura particolare e primitiva di una specie, quando anche questo medesimo sia virtù e perfezione in altra specie.

(20. Marzo 1821.)

Non solamente ciascuna specie di bruti stima o esplicitamente e distintamente, o certo implicitamente e confusamente, di esser la prima e più perfetta nella natura, e nell’ordine delle cose, e che tutto sia fatto per lei, ma anche nello stesso modo ciascun individuo. E così accade tra gli uomini, che implicitamente e naturalmente ciascuno si persuade la stessa cosa.

Parimente non v’è popolo sì barbaro che non si creda implicitamente migliore, più perfetto, superiore a qualunque altro, e non si stimi il modello delle nazioni.

Parimente non v’è stato secolo sì guasto e depravato, che non si sia creduto nel colmo della civiltà, della perfezione sociale, l’esemplare degli altri secoli, e massimamente superiore per ogni verso a tutti i secoli passati, e nell’ultimo punto dello spazio percorso fino allora dallo spirito umano.

Con questa differenza però, che sebbene tutto è relativo in natura, è relativo peraltro alle specie, così che le idee che una specie ha della perfezione ec. appresso a poco sono comuni agl’individui tutti di essa (massime se sono le idee naturali alla specie). Quindi è naturale e conseguente che un individuo, sebben portato naturalmente a credersi superiore al resto della sua specie, e tutto il mondo destinato all’uso e vantaggio suo, contuttociò con poco di raziocinio facilmente possa riconoscere la superiorità di altri individui della stessa specie, e credere il mondo avere per fine la sua specie intera, e questa essere tutta la più perfetta delle cose esistenti, e l’apice della natura. Quindi parimente un popolo, un secolo (ho parlato e parlo degli uomini, e si può applicare proporzionatamente agli altri viventi) o qualche individuo in essi, possono ben riconoscere la superiorità di altri popoli e secoli, perchè le idee relative del bello e del buono sono però, almeno in gran parte, generali in ciascuna specie, quando non derivino da pregiudizi, da circostanze particolari, o da alterazione qualunque di questa o di quella parte della specie, com’è avvenuto fra gli uomini, essendo alterata la loro natura, e diversamente alterata, e quindi anche alterate le idee naturali, e diversificate le opinioni ec.

Questo, dico, accade facilmente all’individuo umano, rispettivamente alla sua propria specie. Ma rispetto ad un’altra specie non così. 1. Perchè le idee che son vere relativamente alla specie nostra, noi (e così ciascuna specie di viventi) le crediamo (e ciò per natura) vere assolutamente: quello ch’è buono e perfetto per noi, lo crediamo buono e perfetto assolutamente; e quindi misurando le altre specie sulla nostra misura, le stimiamo tutte inferiori d’assai; nè possiamo mai credere che in una specie diversa dalla nostra ci sia tanta bontà e perfezione quanta in essa nostra, perchè la perfezione essendo relativa e particolare, noi la crediamo assoluta, e norma universale. 2. Perchè non ci possiamo mai porre nei piedi e nella mente di un’altra specie (come nessun bruto), per concepire le idee ch’essa ha del buono, del bello, del perfetto, e misurare quella specie secondo queste idee, le quali sono diversissime dalle nostre, e non entrano nella capacità della nostra natura, e nel genere della nostra facoltà nè intellettiva, nè immaginativa, nè ragionatrice, nè concettiva ec. ec.

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