Beatnik in pensione
di ALBERTO ARBASINO
[da L’Espresso, 9 ottobre 1966]
Roma – Apriamo la porta della stanza d’albergo, e quest’uomo basso con gli occhi verdi sta ronfando e ringhiando strappandosi la camicia, mostra il ventre obeso alle due ragazze salite poco fa per fotografarlo e intervistarlo. La camicia a scacchi verdi vien via, la prima cosa che mi dice è di togliermi la giacca. M’afferra la cravatta: «Io non ne porto mai, si può anche essere strangolati, con una di queste». E fa il gesto. Vorrebbe che mi togliessi la camicia. Ma per far cosa, per lottare, che non ce la fa neanche a stare in piedi? Sui tavoli, i sandwich non toccati, le birre che succhia fra un cognac e l’altro. Le ragazze fotografano. Lui fa delle corse intorno alla stanza. Non gliene importa niente se si apre la porta, non si accorge neanche se vengono dentro dei curiosi invadenti.
«…Comprare automobili, sfasciare automobili, rubare automobili, fracassare automobili, prender su ragazze, far l’amore, bevute per tutta la notte, posti di jazz, orge sfrenate, posti scottanti…». Questo dice la quarta di copertina di Sulla strada, paperback di otto anni fa, epoca ancora di jazz, non ancora di yè-yè. E subito sotto: «Questa è l’Odissea della Generazione Beat, i giovanotti frenetici e le loro donne che corrono furiosamente da New York a San Francisco, dal Mexico a New Orleans in una ricerca forsennata: di Godimenti e di Verità».
E sulla copertina: «Questa è la bibbia della “generazione beat” – l’esplosivo best-seller che dice tutto sulla gioventù selvaggia d’oggidì e la sua frenetica ricerca d’Esperienze e Sensazioni». Nella prima pagina: «I barbari dello zen, ecco i rivoluzionari sfrenati, dissoluti, non violenti, assetati di Vita, Esperienza, Sensazione, Verità… Sulla strada è la loro odissea, la cronaca esplosiva del rifiuto di due giovani d’inchinarsi all’autorità, di conformarsi a una società che non possono accettare. Ecco la saga della loro selvaggia, sregolata ribellione, raccontata dall’Omero hip della Generazione beat: Jack Kerouac!».
Dolci donne milanesi
Un po’ ostile, un po’ indifeso, si butta sul letto, si rintana negli angoli. Come un infermiere ottimista, o una tata soave, Domenico Porzio gli mormora «Caro Jack, guarda quante belle visite abbiamo qui!», gli domanda «E allora, ieri sera, com’è andata a finire?», ma lui beve la sua birra allarmato, come le nonne di Albee quando sentono dire «c’è qui sotto il furgone pronto». Fa due o tre smorfie. Scatti, scatti di fotografie.
Scrive il suo esegeta Seymour Krim, nella prefazione agli Angeli della desolazione: «Ricordo bene quando a New York, alla fine degli anni quaranta, girava la voce che “un altro Thomas Wolfe, un roaring boy di nome Kerouac, mai sentito?” stava per scatenarsi sulla scena letteraria».
Secondo Leslie Fiedler, «Allen Ginsberg ha addirittura inventato la leggenda di Jack Kerouac, con la collaborazione di certi fotografi di Life e delle riviste femminili, trasformando l’ex atleta della Columbia University, autore di un noioso e convenzionale Bildungsroman da nessuno ricordato, in una figura della fantasia capace di colpire l’immaginazione dei bambini ribelli con pretese letterarie, così come le corrispondenti figure un po’ più ordinarie, Elvis Presley, Marlon Brando e James Dean, emozionavano i loro coetanei meno letterati e ambiziosi». Per Alfred Kazin, «Jack Kerouac è uno scrittore molto meno dotato e intelligente di Mailer, ma nel suo recente best-seller, Sulla strada, si trova quella medesima solitudine d’emozioni senza oggetti di cui curarsi, quella stessa sfrenatezza di violenza verbale che, a guardare un po’ da vicino, pare innaturalmente remota dall’oggetto o dall’occasione. Kerouac, invero, scrive non tanto intorno a “cose”, ma piuttosto intorno alla ricerca di cose su cui scrivere…».
Sta cominciando una tirata contro gli ebrei. È una sua idea fissa. Ma subito dice: «Non sono affatto fascista». Aggiunge: «La politica falsa i valori veri della vita». Precisa: «Sono un gesuita». Un po’ in inglese affannoso, un po’ nel francese arcaico-cantilenante dei canadesi: «Sono il secondo Messia, un Gesù Bambino tutto d’oro, vado in Paradiso con la mia culla». Birra. Cognac. «Miller ha copiato tutto da Céline. Il vero genio tutto originale è Burroughs, che è mio amico. Ma lo sappiamo solo io e Anaïs Nin, che Henry Miller ha copiato tutto da Céline». Gli dico che se ne sono accorti in parecchi. Viene lì col pugno. Poi ride.
Si sa che la bohème americana degli anni venti era una fuga dai villaggi provinciali e ipocriti del Middle West verso le corride e i cubismi della vecchia Europa latina e sdata, ma carica di miti chic. Negli anni Trenta? La bohème americana era radicale, combatteva in favore di tante Cause, faceva del marxismo passionale insieme a un marxismo un po’ trotzkista, e si lasciava fiaccare dai Complessi a causa di un salotto troppo elegante o di un matrimonio tutto sommato felice. «La bohème degli anni Cinquanta» dice Norman Podhoretz «è tutta un’altra faccenda. È ostile alla civiltà; venera il primitivismo, l’istinto, l’energia, il “sangue”. Nella misura in cui possiede interessi intellettuali, vanno tutti per dottrine mistiche, filosofie irrazionali, e un reichianesimo di sinistra. La sola arte frequentata dalla nuova bohème è il jazz, specialmente del tipo cool».
In quanto al reichianesimo, la sa lunga ancora Fiedler. «È Wilhelm Reich che muove i giovani col suo gusto per il magico, e la sua insistenza sulla piena genitalità come scopo finale dell’uomo. Il culto dell’orgasmo sviluppato in suo nome ha fatto molti proseliti negli anni recenti, perfino tra i membri delle generazioni dei Quaranta e dei Cinquanta, vicini alla mezz’età e delusi dal marxismo e freudismo ortodossi. Isaac Rosenfeld, Saul Bellow, Paul Goodman, e specialmente Norman Mailer, cercano di vivere una seconda gioventù, menopausale… Ma ci sono segni dunque che la celebrazione della “piena genitalità” ormai dèmodée continuerà a esistere solo a un livello middle-brown-bambinesco, in romanzi e film sempre più ovvii, derivati, via Jack Kerouac, dall’ultima folle efflorescenza del sogno del sesso utopistico…».
Ieri sera aveva detto a Porzio: in Italia vorrei visitare soprattutto Pavia, Padova, Bologna. E anche: il miglior poeta italiano è Gregory Corso. Adesso gli frughiamo nel taccuino, e troviamo scritto: «Se l’Italia deve diventare la custode della chiesa, secondo la profezia, che cominci subito». «Garibaldi ha freddo, il cavallo è scoperto». «Raffaello, così languido». «Te la ricorderai, una ragazzina un pò maschile di Roma?» E a Milano, dopo un incontro di traduttori: «Dolci donne milanesi con amanti crudeli».
Pazzi da vivere
Parecchi anni fa, in un saggio molto celebre, Philip Rahv ha stabilito una differenza fra gli scrittori americani “pellirosse” e quelli “visi pallidi”, ormai insegnata nelle scuole come da noi quella fra classici e romantici. Il viso pallido è colto, patrizio, bostoniano, simbolista, religioso, irreale, pedante, snob: Henry James, Melville, Hawthorne, Edith Wharton, Emily Dickinson, Salinger. Il pellerossa è ordinario, sanguigno, maleducato, realistico, emotivo, spontaneo, tutto-esperienza e anche come-viene-viene: Whitman, Twain, Dreiser, Anderson, Wolfe, Sandburg, Caldwell, Steinbeck.
Gli chiedo cos’è lui. Risponde: tutte cretinerie. Gli chiedo cos’è Burroughs. Per poco non mi picchia. Non riesco proprio a capire una cosa: la parola d’ordine beat era “cool”, cioè freddo, immobile, distaccato. Però scrivevano (Kerouac) cose tipo «noi pazzi, pazzi di vivere, pazzi di parlare, pazzi di farci salvare, avidi di ogni cosa nello stesso tempo, noi che mai sbadigliamo o diciamo un luogo comune, ma bruciamo, bruciamo, bruciamo come favolose candele romane gialle che esplodono come ragnatele fra le stesse e in mezzo si vede esplodere la luce centrale blu, e tutti gridano “aaahhuuu!”». Questa prosa è calda bollente, chi l’ha scritta senza rileggerla aveva la temperatura alta, altro che cool! Bisognerebbe proprio farsi spiegare questa cosa.
Ma lui corre intorno alla stanza e fa il cavallino, ha rimesso su la camicia ma spinge in fuori la grossa pancia, canta abbandonato e felice delle filastrocche arabe o indiane – o iraniane? lo dice, ma non s’è capito – beve la sua birra, rifiuta il pezzo di pane e non gli si può andar vicini non per i pugni ma per l’alito.
«Ancora un giorno a Roma!» fa, sinceramente angosciato, quando gli annunciano che la partenza per Napoli è domani e non oggi. E rifà subito un incontro di pugni, come una volta che è andato con Ginsberg a trovare Mailer, e Mailer li ha accolti coi pugni pronti tipo Hemingway, e allora Ginsberg si è tirato giù i calzoni, gli ha detto «guarda qui!». E aggiunge su Hemingway che non ha mai avuto voglia di leggerlo, perché «vuol far troppo il Grande & Semplice». E precisa su Ginsberg che certe volte, attualmente più no che sì, è un grande poeta e detesta gli ebrei anche se è ebreo lui stesso.
Deve aver letto qualcuno di quei libri antisemitici che circolavano anche da noi tanti anni fa. Ci torna sopra continuamente: una ragazza ebrea ha sposato un suo amico «per prendergli il nome»; e subito gli ha detto «manda fuori di casa quei tuoi amici mascalzoni». E anche Kafka ha rubato tutto da Dostoievskij; e Einstein da uno scienziato polacco: perché gli ebrei vogliono solo portar via tutto a tutti. Aizzano anche i negri contro i bianchi, per poi approfittarsene.
Questi autori americani sono molto diversi dai nostri; e quelli alcolici, tutti uguali fra di loro. Cerco d’immaginare delle analogie, quando racconta: per esempio, io con Sanguineti oppure con Testori, che andiamo a trovare Ottieri oppure La Capria, e lì invece di parlare del Gruppo 63 ci tiriamo dei pugni per giocare, e a un tratto giù i calzoni, e poi fuori le bottiglie, e poi giocare a dadi nell’alba con Parise…
Ma lui dagli ebrei sta facendo dei va-e-vieni continui con la filologia e l’onomastica: spiega le origini dei nomi della sua famiglia, Indiani e Cornovaglia, col gusto e la curiosità etimologica di Roberto Longhi. Sua madre si chiama L’Evéque, nome predestinato… ma ricade subito: nomi come Ferlinghetti o Alberghetti non possono essere che ebrei, perché finiscono in “ghetti”.
Forse lui non è Kerouac. Forse si tratta di un allegro ubriacone della Bowery che ha sentito in un bar il vero Kerouac raccontare di questo viaggio offerto da un editore italiano, e si è offerto di venire al suo posto. Il vero Kerouac pare un tipo di parecchie letture. Può fare dei paragoni indecenti fra se stesso e Proust: «Scriviamo tutt’e due le nostre autobiografie, in parecchi volumi: la differenza è che lui rielaborava dopo, in un letto di malato, mentre io scrivo mentre vivo» (lasciandosi dunque sfuggire la parte fondamentale, “critica”, del lavoro di un meraviglioso artificiere, nient’affatto naïf; e badando solo ai materiali deperibili, non già al Congegno che è l’unica cosa che conta). Però fa diverse citazioni appropriate di classici moderni: perfino Mario e il Mago.
Il formaggio con le mele
Questo qui invece non sa mica tante cose. Wilson, Kazin, Trilling, sì: i tre grandi critici gli vanno bene.
Però non gli viene in mente una storia famosa: Ginsberg allievo di Trilling alla Columbia, salvato da lui dalla prigione, oggetto della compassione curiosa di sua moglie, e poi protagonista dell’unico buon racconto di Trilling stesso. Dice: conosco tutti! E fa tanti nomi. Tutta gente che tutti conosciamo, del resto. E un motto di Auden potrebbe anche esser vero. Mangiava una mela su un sofà. E lui: «Buona col formaggio!». E Auden: «Col formaggio non è buono niente!». Possibile: Auden, vecchio topone, pur di non parlare di letteratura va incontro a qualunque leggerezza. Però poi imita Truman Capote, e qui fa una voce da basso, mentre Capote è tutto un falsetto. Forse non è il vero Kerouac. È un allegrone venuto al suo posto: uno scrittore sia pure degli anni Cinquanta non si conforma ai modelli Bowery per la sua rappresentazione alcolica. Generalmente ha modelli migliori. Questo ripete troppo «sono un gesuita»; poi aggiunge che non accetta dogmi, crede solo alla sua verità interiore, si dà alcune azzeccate definizioni di luteranesimo; ma poi soggiunge che no, è gnosticismo (un quarto d’ora per trovare la parola).
Ma forse invece lo è. Ha comprato tanti rosari per la sua mamma; e si sa che quando il vero Kerouac scrive della mamma, De Amicis al confronto diventa Pascal. Che imbarazzo, certe elegie sulla mamma patetica che rammenda le calze rotte del figlio tornato tardi, con aghi e ditali di tanti anni fa, e poi si alza per preparare sospirando delle minestrine che costano poco però tanto buone…
Forse lo è. Butta là, riattaccandosi alle questioni di prima, un «Henry James non è affatto cool, è cool William James», e se gli obbietto che Henry è un pesce freddo, in fondo gli va bene. Non ha dormito, vorremmo andar via tutti, ma non ci lascia, s’inalbera. In francese, in inglese, con qualche parola di spagnolo: «Solo Burroughs è tutto originale!». Salutiamo. Non vuole. Gioca con un rosario. Cosa pensa dei nostri beat capelloni d’adesso? «Ho quarantaquattro anni, sono troppo vecchio perché m’importi di quello che può fare un branco di giovani stupidi bohemians». Che sia davvero Kerouac? L’ostilità è cessata, pare ansioso. «Pellirosse e visi pallidi sono stupidaggini, cool significa “fermo”, come quando sta per arrivare la polizia; la verità sta nella spontaneità. È la prova del fuoco: come per i gladiatori nel circo. Il lettore o la lettrice “partecipano” solo se quello che scrivo è “sentito”, con eccitazione. Dunque scrivo solo quello che scrivo profondamente». Se lo sentisse Flaubert!… Forse è Kerouac: i suoi libri sono scritti proprio così. Ma odia qualcuno? Tutto sommato no: è una furia inoffensiva. Ogni volta che gli si butta lì un nome, alla fine vengono fuori delle mitezze…