Da POINT OMEGA di Don De Lillo

da FREQQ

“Tre anni dopo il controverso L’uomo che cade, sta per tornare in libreria Don De Lillo: l’autore più paranoico e metafisico della letteratura postmoderna americana (ammesso che il primo aggettivo valga ancora qualcosa). Anzi, per dirla tutta, in America è già tornato visto che il suo nuovo romanzo Point Omega è uscito il 2 febbraio. In Italia ci sarà da aspettare ancora un po’ per leggere la breve novel (117 pagine hardcover, l’edizione originale) incentrata sull’incontro, in una casa sperduta nel deserto, tra Elster, un anziano ex stratega del Pentagono nauseato dalla guerra (in Iraq) e un artista contemporaneo giunto fin lì per filmarne la storia. Come al solito De Lillo non ci va leggero fin dall’idea di partenza.Di seguito l’inizio del libro, da noi indegnamente tradotto.”

POINT OMEGA di Don De Lillo

La vita vera non è riducibile a parole dette o scritte, da nessuno, mai. La vera vita si svolge quando sei solo, mentre pensi, perso nel ricordo, oniricamente autocosciente, nei momenti submicroscopici. Lo diceva spesso, Elster, e in più di un modo. La sua vita era accaduta, diceva, quando era seduto a osservare un muro bianco pensando alla cena. Una biografia di ottocento pagine non è molto più di una morta congettura, ripeteva. Quasi gli credevo quando diceva cose del genere. Sosteneva che lo facciamo di continuo, tutti noi, diventiamo noi stessi, al di sotto dei pensieri fuggevoli e delle immagini sfocate, quando ci chiediamo pigramente quando ci accadrà di morire. Così è come viviamo e pensiamo, che ce ne rendiamo conto o meno. I pensieri scombinati che facciamo quando guardiamo fuori dal finestrino del treno, macchioline opache di panico meditativo.
Il sole era a picco. Era quello che desiderava, per sentire meglio la fiamma ardente che gli batteva in corpo,per sentire il suo stesso corpo, reclamarlo da quel che chiamava la nausea delle notizie e del traffico. Era il deserto, al di là delle città e delle metropoli. Si trovava qui per mangiare, dormire e sudare, qui per non fare nulla, solo sedersi e pensare. C’era la casa e poi nient’altro che distanza, niente panorami o ampie vedute; solo distanze. Era qui, diceva, per smettere di parlare. Non c’era nessuno con cui parlare eccetto me. All’inizio lo faceva con parsinomia e mai al tramonto. Niente di simile a quei gloriosi tramonti da pensionati, costruiti su obbligazioni e capitali investiti. Per Elster il tramonto era un’invenzione dell’uomo, una nostra sistemazione percettiva della luce e dello spazio dentro elementi di stupore. Guardavamo e ci stupivamo. C’era un tremito nell’aria come di un colore a cui nessuno aveva dato un nome e le forme della terra acquisivano definizione, una chiarezza di contorno ed estensione. Forse era la differenza di età che c’era tra noi a farmi pensare che in realtà provasse qualcosa di diverso nelle ultime luci del giorno, un’inquietudine persistente, incontrollata. Il che avrebbe spiegato il silenzio.
La casa era un ibrido triste. Un tetto di lamiera corrugato posato sopra una facciata di legno. Un sentiero di pietra mai terminato di fronte e una veranda che si sporgeva da un lato. Lì era dove ci sedevamo, trascorrendo la sue ore silenziose. Il cielo terso, la prossimità delle colline chiaramente visibile nel mezzogiorno.
Notizie e traffico. Sport e meteo. La sua acida terminologia per la vita che si era lasciato alle spalle. Più di due anni convivendo con le dure idee che produce la guerra. Tutto è rumore di fondo, diceva, ondeggiando una mano. Gli piaceva ondeggiare una mano, in segno di abbandono.
C’erano state le valutazioni del rischio e le scartoffie sulle linee di condotta. I gruppi di lavoro interagenzia. Lui era l’outsider, uno studente che aveva ottenuto i voti sufficienti ma non aveva alcuna esperienza di gestione. Si sedeva a un tavolo in una sala riunioni segretata insieme a strateghi e analisti militari.
Era là per concettualizzare, trasformare la sua parola in virgolettati, per applicare idee e principi panoptici a questioni come lo spiegamento delle truppe e la controinsurrezione. Era abilitato a leggere trasmissioni classificate e trascrizioni confidenziali e ad ascoltare le chiacchierate degli esperti locali, i metafisici delle agenzie di intelligence, i fantasisti del Pentagono.
Il terzo piano del cerchio E del Pentagono. Sbruffoni gonfiati, diceva.
Aveva restituito tutto quello in cambio di spazio e tempo. Gli sembrava di aver respirato tutte quelle cose attraverso la pelle. Laggiù le distanze assorbivano ogni particolare del paesaggio. Continuo a vedere quelle parole. Fiamma, spazio, immobilità, distanza. Si sono trasformati in stati mentali che riesco quasi a visualizzare. Non so cosa significhi esattamente. Continuo a vedere figure in isolamento, osservo dimensioni fisiche del passato racchiuse all’interno delle emozioni che scaturiscono da quelle parole, emozioni che si fanno più profonde col tempo. Questa è l’altra parola: tempo.
Guidavo e osservavo. Lui stava a casa, seduto a leggere sulla pensilina cigolante avvolto in una nube d’ombra. Mi sono spinto dentro le gole, nei canyon, lungo sentieri non segnati, sempre acqua, portandomi acqua dovunque, sempre un cappello, indossando un cappello parasole e un fazzoletto al collo, mi sono fermato in cima a promontori sotto un sole punitivo. Mi fermavo e osservavo. Il deserto era fuori dalla mia portata, ero un alieno, era fantascienza, saturante e remota insieme, e dovevo forzarmi a credere che mi trovavo davvero lì.
Lui sapeva sempre dov’era, sulla sua sedia, vivo per il proto mondo; i mari e le scogliere di dieci milioni di anni fa. Chiudeva gli occhi, entrando silenziosamente in contatto con la natura di antiche estinzioni. Praterie in libri illustrati per bambini, una regione brulicante di cammelli felici e zebre giganti, mastodonti e tigri dai denti a sciabola.
L’estinzione era un tema ricorrente per lui. L’orizzonte ispirava di continuo temi. Spaziosità e claustrofobia. Questo sarebbe diventato un tema.

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