Si è spento oggi, 18 ottobre 2011, il massimo poeta italiano del Dopoguerra, uno dei grandi poeti di livello mondiale. Mai come oggi ho l’impressione che nulla, davvero nulla sarà più come prima e che questa morte sia in se stessa una parabola. In ricordo di Andrea Zanzotto, pubblico una dichiarazione che raccolsi nel 2001 e un poemetto di quello stesso anno.
“Finché si sopravvive – dico fisicamente -, c’è la spinta a dire, a reagire a ciò che accade intorno e a dare rappresentazione a ciò che si vomita da dentro. Poiché la vita si rappresenta più come spravvivenza che come vivenza, , ci si abbandona a flussi di ricordi e a reazioni contro il presente: per esempio contro quello che mi accade attorno, al territorio attorno a me, e che io ho definito ‘cannibalismo del territorio”. Mi limito a reagire, proprio come cerca di farlo un insetto che si cerca di schiacciare. Tutta questa reazione alla superfetazione e alla frenesia del contemporaneo – anche sul piano della lingua – può apparire un aspetto neogiovanilistico: ma non lo è. Non bisogna dimenticare che, oltre a ciò che si constata nel paesaggio, c’è un fenomeno sottile e inquietante che prende piede: una sorta di duplicazione, di schizofrenia, per cui ci troviamo di fronte a uomini che devastano il territorio e poi fanno opera di solidarietà. Si assiste a un turbinio locale che corrisponde a un turbinio mondiale. E devo dire che c’è qualcosa d’interessante in questo shakeraggio, per esprimermi con orrendo termine anglicizzante’. [qui il testo integrale dell’intervista]
***
LIGONÀS
I
Quell’intimo splendore
di “c’era una volta” e che
da dirupati anni mi resta diviso
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Stillicidi in colline stradine e giardini
e anche là nel mistero che s’addensa ai Palù
che dagli oblò di Ligonàs s’indovinano –
ed è, tutto, colmo calice di nivale dolcezza
di nivale attitudine ad appianare, sanare,
è-in-sé-e-per-sé di neve involata, di soli involati –
Sole, ma timido per geli, ma quasi supplicante
tregue almeno di poche ore, deh!
ore pur sempre d’etra purissimo, ah!
e neve augurata, ma solo di tocco in tocco,
tatti, contatti, feste, agguati placati –
appena sopravvivente
ma ben decisa a tutto
sopportare per esistere qui e rifigurare, adeguare,
verde e polveri e voci di altre ragioni…
E ogni sole e neve, punto di sole o neve
va per beatamente allacciare gli estremi di foco-luce e
di gelo negato-negante, li allaccia per solo un dito
e poi per dita e fiati e fiati e baci e baci
E anche le più avverse potenze nel destino comune
si fanno carezze e nozze e illimiti titillii
fanno corona di gioia-lutto-iddii:
qui il dirupo del ’29, del ’54, del ’63 megainverni
ed altri dirupi di neve-sole di sommi-inverni
si colmano, si ritrovano in seconda fila;
e i bambini in slittino
si lasciano andare appunto di dirupo in dirupo
da dirupi alti tre dita o alti tre millenni
e tutto è bambino in tintinno con loro, indenni
tra gloriuscole-ombra già al primo pomeriggio…
Fatate dimenticanze già tentano e ritentano,
magici sottozero
decine di sottozero, terribili eppure
dolcemente ridenti, irrisivi fino all’indaco al turchino
preparano le irte, irsute d’addiacci, nottate
che si danno la voce di campo in campo, di annate in annate.
II
Ligonàs
No, tu non mi hai mai tradito, [paesaggio]
su te ho
riversato tutto ciò che tu
infinito assente, infinito accoglimento
non puoi avere: il nero del fato/nuvola
avversa o della colpa, del gorgo implosivo.
Tu che stemperi in quinte/silenzi indifferenti
e pur tanto attinenti, dirimenti
l’idea stessa di trauma –
tu restio all’ultima umana
cupidità di disgregazione e torsione
tu forse ormai scheletro con pochi brandelli
ma che un raggio di sole basta a far rinvenire,
continui a darmi famiglia
con le tue famiglie di colori
e d’ombre quete ma
pur mosse-da-quiete,
tu dài, distribuisci con dolcezza
e con lene distrazione il bene
dell’identità, dell'”io”, che perenne-
mente poi torna, tessendo
infinite autoconciliazioni: da te, per te, in te.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tu mal noto, sempre a te davanti come stralucido schermo,
o dietro sfogliato in milioni di fogli,
mai camminato
quanto pur si desidera, da ben prima del nascere:
ma perché
furiosa-dispotica-inane
l’ombra del disamore
della disidentificazione
s’imporrebbe qui nei giri, strati e
salti, nelle tue dolci tane?
Ma no. Con frementi tormente di petali di meli
e di ciliegi con rapide rapide nubi di petali e baci
tu mi hai ieri, ieri? accarezzato?
Gremite assenze, ombre grementi alle spalle
di quanto fu e sarà,
petali petali amatamente dissolti
nelle alte dilavate erbe – e laggiù tra i meli
stralunati presagi di sera…
In petali, piogge pure, lune sottili
dacci secondo i nostri meriti
pochi ma come immensi,
dà che solo in mitezza per te mi pensi
e in reciproco scambio di sonni amori e sensi
da questa gran casa LIGONÀS
dalle sue finestrelle-occhi all’orlo del nulla
io ti individui per sempre e in te mi assuma.
III
(Ligonàs)
Luce raggiunta infine, raggiungibile in
ogni sua più riposta volontà
di astrarsi e separarsi – ma inducendo
e producendo il creabile
Eppure è come priva di consistenze
tanto è limpida e dilavata
tanto è soccorrevole e conosciuta
tanto è felicemente sconosciuta
Luce che è pur sempre da indagare
e che si fa amare così a perdifiato
ma anche con calma divina
come bambina o sorella
E c’è presa, in lei, di inutili e pur sagge
forze che sublime-mente
vengono sperperate ed anche risparmiate –
equilibrio e risparmio in forre e piagge
e pure vento di innumerabili prospettive
e ciò che chiama a rincorrere, a
voglie di inseguimenti – e ora
ora – dalle finestrelle sempre fervideliete
di Ligonàs
s’involve e cede, brevissima spuma
ultima dei giorni della e poi stella
dell’ineguagliabile golfo di nadir
trasfuso da sogni e notti onir
oniriche, effuso alluso.
Vagare e sopore
ma che trabocchi inavvertitamente,
orienti il niente e sei pur sempre in fase
di ristorare da ogni
dubbioso esito da ogni
remora da ogni dispersa frase.
Così che par che tutto
in collinari accenni resi
pulviscolo di mirabilia
somigli a quanto si assottiglia
d’orizzonti, così che sia fonte
di molto più che sé, prati da sé
figliantisi col verde del frumento
nel refolo d’un accento.
E una fogliola che cadendo, sola,
nel lontanissimo
di un centro senza senso, in un dove
eccentrico nel suo stare,
ad ogni cosa fornisce prove:
luce in sé intenta a sfidarsi a sfidare.
Nota
Ligonàs: grande casa-osteria in aperta campagna. Il toponimo, di origine incerta, figurava sulla facciata. Nel tempo scomparve e ora è stato ripristinato.
[da Sovrimpressioni, 2001]