
Due parole sulla poesia italiana in questi ultimi due decenni: dov’è finita? Non c’è. Non c’è riconoscibilità. Le riviste sono poche, meste, prive di rappresentabilità in qualcosa di significativo che coinvolga, immaginalmente e linguisticamente. Gli ultimi libri dei pochi poeti italiani che seguivo sono a dire poco patetici, oltre che insignificanti. Nessun poeta ha colto minimamente la chance trasformativa di questi vent’anni, che non è soltanto “comunicazione”, ma anzitutto antropologia. Come stavano bene nella bambagia della prebenda garantita da un sistema che loro rivendicano come “culturale” e invece era meramente una bolla dell’odiato sistema capitalistico, in cui rimanevano al calduccio e gorgogliavano tra loro! Adesso la lingua non la lavorano artisticamente questi inetti del presente. Bisogna rivolgersi a scrittori come Nove (un caso anfibio: è poeta, anzitutto, uno dei due o tre italiani che reggono un presente che dura decenni…), Mari (ha pubblicato nella “bianca” Einaudi, Pincio (sta pubblicando poesia), Orecchio e tanti altri, per cui la lingua non ha semplicemente una dimensione piattamente storica, direi penosamente storiografica. Manca, ai “poeti italiani” che si autoetichettavano e a tutt’oggi si autoetichettano con maggiore tristo esito, una forza eversiva che è metafisica. O la poesia è metafisica o non è. Accade soltanto in Italia che si incontri questa penuria poetica. Fuori c’è una cinquantenne come Juliet Wilson, senza scomodare Geoffrey Hill al quale dovrebbero dare il Nobel, o Amy Gerstler o Enis Batur o Durs Grünbein o Steffen Mensching e potrei andare avanti pressoché all’infinito. Non hanno letto Husserl e Heidegger o, se li hanno letti, non li hanno compresi: solo così riesco a spiegarmi l’inanità del gesto in un presente in cui la tecnologia manifesta la sua metafisica. Il dato minimale o il visionario privo di lingua, un bellettrismo minuscolo o l’atteggiamento depressivo degno di un ventriloquo di paese emulo più delle crisi pomeridiane e casalinghe di Sartre che del titanismo di Leopardi. Grazie tante ai e alle signori e signore della poesia italiana, variamente antologizzati e antologizzate: ci avete fatto mancare un’esperienza decisiva per vent’anni, fortunatamente siete stati vicariati da romanzieri veri o presunti, collettivi, pseudonomici, narratori stilistici.
Nel 1992, quando lavoravo a “Poesia” non avrei mai detto che sarebbe divenuto possibile un simile stato di cose. Ma, si sa, sbaglio, clamorosamente, spesso. Spesso vorrei sbagliarmi.
PS. Ciò che ho qui sopra scritto non si attaglia a né riguarda minimamente Andrea Ponso e Marco Giovenale, gli unici coetanei che riconosco integralmente come poeti italiani autentici. Magari mi sbaglio.