Il saggio saggiatoriano “Io sono” procede bene: spedito e irto di congiunzioni astrali, di notifiche e ceneri che si sfaldano nella grand’aria del ricordare dentro il ricordare. L’umano fu montagna dentro la razza della montagna: si figurava, balbettava, singultava in conati. Le chiamava: parole. Sono pronte le bozze, dunque, e si comincia a correggerle: ora. Le cosiddette “sudate carte” ammontano a un totale di 327 pagine. La polizia interiore è allertata, è in vigore la norma, lo spasmo di attenzione. Rimastichi te stesso, è l’unica occasione in cui hai il monopolio della risposta all’interrogazione imperativa: “Conosci te stesso”. La scrittura è decrittazione, dura opera, camera di compensazione. Ogni invenzione è maturata prima di questo e mostra qui ora il suo sfacelo, la sua putredine proclamata. L’inizio era dunque la fine. I giorni natalizi, accartocciati, preparano sempre l’olocausto pasquale. Si procede autoptici. Si ha a che fare con se stessi per via chirurgica, emendativa. Non si finisce di finire. La conclusione è un baratro, una meiosi. Saltano i diaframmi, i filtri si scuotono. L’interiorità è sempre aliena, in qualche modo. Scosse, banalità del genere facevano un tempo ciò che fu un libro. Stiamo scrivendo sull’ornamento di una sconfitta protratta, che il tempo commina a se stesso, essendosi imbarcato nel fenomeno umano, questa disdetta. Ma tu inforca le lenti maculate di polvere e grasso di pelle, supera l’impronta dell’indice che ha aderito alla superficie neutra, segnandola, e rettifica il tutto: sembrerà che tu spenga il fuoco, quando lo stai accendendo. Fissa quel fuoco nella combustione delle pagine.
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