E’ un periodo di addii. Scopro ora che è morto un mio amico, Franco Scaglia. Intellettuale, scrittore, di riconosciuta matrice cattolica ecumenica, vincitore di un Campiello, questo è uno dei due uomini a cui devo la sopravvivenza in un periodo molto duro della mia esistenza. Lavoravo a Montecitorio, quando fui lasciato a piedi di colpo, inaspettatamente. Era la fine del 1994. Reagii con una sottospecie di sofferto esaurimento nervoso: non avevo un soldo, neanche per prendere il treno e tornare a Milano. Non sapevo cosa fare. Mi raccolse questa persona gentile, dallo sguardo tumido e commosso, azzurrissimo. Lo avevo conosciuto in una struttura Rai che si chiamava Videosapere, che vicedirigeva, ma messo sotto mobbing, per la sua pregressa appartenenza al mondo democristiano, che non sembrava in voga in quel periodo. Mi salvò letteralmente, offrendomi microservizi tv da effettuare a proposito di libri religiosi e vagamente letterari. Mi ospitò nella sua casa romana. Aiutava in modo del tutto disinteressato alcuni autori, tra cui un geniale sceneggiatore, del cui manoscritto mi ricordo bene: un libro semplicemente impressionante che, in seguito, e senza successo, provai a pubblicare in Mondadori, quando l’altra persona a cui devo la sopravvivenza mi fece lavorare in quella sede distante da tutto e vicina a ogni cosa. Mi ricordo che una volta, essendo tornato io a Milano, Franco Scaglia mi pagò il biglietto per andare a Roma a incontrare l’incredibile direttore di RaiDue, Gabriele La Porta, per vedere se si poteva dare corpo a un progetto culturale televisivo, che non ebbe poi seguito. Quel viaggio cosa fu lo ricordo a distanza di tanti anni: mi sembrava di recarmi all’esame di laurea, continuavo a farmi domande impulsate dall’esaurimento, mi chiedevo se era nel 1832 che Hegel pubblicò le Scienze filosofiche in compendio, pensando che a Roma mi sarei trovato di fronte a una commissione d’inchista pronta a bocciarmi. Mi risvegliai per perdere i sensi all’istante: a casa di Franco c’erano Oliviero Beha e Barbara Alberti, oltre a decine di avventori e avventrici che mi fecero sperimentare in anticipo la grande bruttezza di Roma. Chiesi a Scaglia: “Come fai a vivere in questa roba?” e ho presente ancora il suo sguardo inerme e sornione, rassegnato, fatalista, effettivamente *cattolico*, accompagnato da un sorriso amaro e dolce. Quando passava a Milano, lo incontravo: ero sempre in cerca di lavoro. Una volta, una mattina in una famosa pasticceria meneghina in via Montenapoleone, gli esposi la trama di un romanzo privo di genere, “La Messia”, che a quelli di Mondadori non era piaciuto e quindi non me lo facevano, così pure non piaceva a chiunque avessi interpellato nel mondo editoriale. Rimase tra l’incantato e l’esaltato, sprizzando una sincerità intellettuale che raramente ho incontrato: “E’ un film di Hollywood da girare nel 2030” mi disse. Poi quel libro non lo scrissi. Mi è stato tanto vicino, Franco Scaglia, davvero tantissimo, mi ha aiutato tanto e io sono certo di non avergli espresso tutta la gratitudine che ho nutrito per lui, in questi decenni. Che se ne sia andato mi rattrista. Che periodo senza requie, quanta carne non mi tocca più, quanti spiriti, quanti corpi si svuotano, quanto si sbriciola la cartapesta umana e quanta memoria si inghiotte l’assenzio della memoria stessa: questo liquore forte che ti costringi a bere, Giuseppe, è stata l’esperienza del mondo, il tempio e la catena a cui ti sei legato, l’obice che centra lo zero, l’ardua china da fare e rifare, il tantalismo tutto della tua esistenza piccina, trascorsa a scrutare allibito le stelle strane, le fontane fredde, gli spiriti ricoverati dalla grande malattia…
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