In ospedale, mentre sfiammavano la colecisti, in attesa dell’operazione che avverrà a giorni, ho constatato ed esperito: la pastina pessima e però peggiore dell’intera mia esistenza, con un brodo di cif ammoniacale e dei pallini a granuli che andavano investigati da men in black appositi e dotati di tute anticontaminazione; rapporti sociali devastanti, come quello con la jabba dello hinterland, che mi svegliava a bestemmie rauche alle 6.30 mattutine, dandomi rappresentazione di un caleidoscopio famigliare impensabile anche ai tempi di neanderthal o della grande migrazione; la visione dell’esserino indifeso che pesa 13 kg e porta una pazienza che, al confronto, Giobbe era Sgarbi; i sillogismi della rassegnazione; la persistenza dell’innamoramento bimbo degli anziani ricoverati coi rispettivi consorti sani; la pervasività della retorica cinque stelle ovunque; il vicariato umanitario del corpo infermieristico, a fronte del crollo del rapporto tra medici e pazienti; i soliti aneddoti quantistici che avvengono nel capo ipermagnetico della mia esistenza, come l’incredibile discussione teologica a colpi di citazioni da Maritain e Merleau-Ponty col cappellano del Policlinico, una sorta di strano Rafsanjani cattolico dai modi affettati e gentilissimi, stracolmo di bene e di sopportazione; l’epifania di una suora bergamasca biancovestita, che trascina con sguardo stolido e vitreo la massa deforme del suo corpulento organismo, trasudando “pòta” e nirvana, la quale mi colpisce sferrando un “pace e bene”! in quanto l’ho offesa, dandole della bergamasca, mentre lei vive a Milano; la flebite dovuta all’innesto di aghi che, a detta degli operatori sanitari, sono troppo grossolani e non vanno bene, “spaccano tutto, Le giuro, signor Genna”; la somma indifferenza al fatto che io abbia scritto dei libri, il che è un carotaggio sul sociale che pratico da anni, non per narcisismo, ma per scrutare l’eventuale intimità con la forma libro, da parte del supposto tessuto sociale in cui sono inserito; la noia come forma di meditazione; l’inconsolabilità che la letteratura walseriana offre in momenti di débacle biologica; la soglia di sopportazione del dolore inusitatamente alta, per cui ho una colica e manifesto i sintomi di una gastrite; l’irrefutabile evidenza che inserire nello stomaco un palloncino al fine di dimagrire è pratica scriteriata, poiché chi l’ha effettuata ha poi manifestato, davanti ai miei occhi, che certi fenomeno non sono appannaggio solo della posseduta ne “L’esorcista”; la grazia di chi mi aiuta e mi viene a trovare ed è presente; l’enormità del futuro della pubblica sanità; l’afa da Kinshasa della cittadella in cui, giocoforza, tutto è biopolitico e in modo pressante, per cui tu sussurri come un mantra le sillabe di una persona fino a poco tempo prima sconosciuta e che ora è centrale nelle ore che vivi, in quanto sa e dispone, ed è “il professore”; il sapore di stagno arricchito della sigaretta fumata al portone di entrata, con la piantana trascinata faticosamente, mentre la flebo di fisiologica si insinua goccia a goccia in te e gli avventori ti squadrano con uno sguardo in cui il terrore della malattia è commisto alla riprovazione verso la nudità e la povertà assoluta; l’impossibilità di rubare delle fiale di Toradol; il refluo del sangue quando la flebo è esaurita; la Grecia non ce la fa la Germania; tutti culattoni oggi; non è vero che c’è la ripresa; la televisione; la televisione; la televisione; Gerri Scotti o Carlo Conti?; i telefonini; i telefonini; i telefonini; la vita è una merda, eh come siamo fragili. E poi una mattina, scendendo le scale, c’era un petalo avvizzito, di glicine o chissà, una campanula chiara, agitata dal vento di afa, sulle scale pluridecennali in pietra grezza, che fa il vortice calmo e lento del trasvolare verso la finestra verso il cielo bianco e lì rientro tra poco a farmi tagliare, il postoperatorio è breve e i calcoli sono fatti di colesterolo ma è genetico, la colica è un luogo privo di angoli di riposo e fiato, vedi le stelle, come Dante Alighieri, questo è il fatto.
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