“Nella nebbia serale, tra gli squilibri della mente” sono disceso da viale Sabotino, secondo piano, e ho visto: le luci, quindi le 4 del mattino. Era l’anno di poca grazia 1995, Mario e Donata dormivano al terzo piano e io andavo verso il Policlinico, scarso di tutto, ricco di immagini inchiodate, crocifisse, tra costato e pia madre. Quel cappotto zigrinato del mercato rionale, acquistato, appariva impietoso, prima dei neon arancioni di Milano la notte. La suola della scarpa incrinata imbarcava l’acqua. Quell’inverno non sarà remunerato mai. Camminare in un silenzio reale, rotto dai fari dell’auto di un film poco visto, di Antonioni, ricordo spezzarsi le molecole d’acqua in quella bruma notturna. Cupo essere, cupo strasentire mi pareva di imbarcarmi per un’isola abitata da defunti, animali penitenti di materia animica, nebulari. Non fumavo allora. Secca l’estate a venire avrebbe rovesciato il tempo concavo, avrebbe dilagato la luce delle erbe fragole, gli schiocchi dei bombi nelle vigne. Stavo crescendo in ombra, in solitudine, in desertificazione delle mie terre arse, dei miei soliloqui, delle lancinazioni. E andavo alla porta del Policlinico al pronto soccorso vecchio e spalancai in direzione neon e diazepam, e donna io vidi mai che lenire posso, beccheggiando sulla chiatta alla deriva, beccheggiando sull’acqua insana e lacustre tra effusione e bacio, rilasciando i respiri finalmente.
Questo sogno era storia e era stanotte, 2015. Tutte le immagini sono andate, via sempre, sono intatte, coagulo di tempo che smentisce il tempo, e primieramente l’immagine di lei antica sempre.
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