Se la lingua, che non è soltanto suono, ma intermedio attraverso cui le intermittenze si vedono oltre a sentirsi, essendo questo intermedio il pieno delle strutture e il luogo di materia luminescente interiore e mentale che si ravvede quando fioriscono le cosiddette immagini – se la lingua è più larga e pesante e offuscata di quanto accade nella poesia, c’è la prosa, che è anche, e non soltanto, narrazione. E’ dunque uno stato. E’ confusivo, come qualunque stato preso in sé. All’interno di quello stato, per mediazione appunto, in cui vengono a evenienza le forme, crepita il silenzio, che non si comprende se è luminoso od oscuro. Quindi vale per la prosa, in modo più grossolano e offuscato, per tutta la prosa dico, compiere materialmente quanto Andrea Zanzotto faceva per dizione di rabdomanzia poetica, e bisogna dunque fare che il libro obblighi a sentire così: «Nella poesia […] si trasmette per una serie di impulsi sotterranei, fonici, ritmici, ecc. Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo […] Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua. L’eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni, può però provocare un “cortocircuito”, una oscurità da eccesso, non da difetto». Bisogna fare ventriloquismo soltanto fino a qualche anno fa, sembrando che si narri. Poi si sta nello stato confusivo. Il prossimo libro è dunque la pàtina dell’immagine, nemmeno più il soggetto: letteralmente si va con la testa tra le nuvole.
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