October 31, 2015 at 11:11AM

Amiche amici, chiedo perdono, sono Giuseppe Genna, provo qui delle parole, degli ultimi mesi e di due notti, non state lì a giudicare, siete in sette, vi voglio bene, odiandovi profondamente perché esistete bene, solo provavo, infido, immaturo al giorno, scusatemi che scrivo qui, di piccola pubblicità, per provare le parole del nuovo libro, scusate senza nessuna colpa vostra, è la prova di nuovo libro e sempiterna requie del nome Giuseppe Genna. Perciò scusami, soprattutto Tu. Ecco che provo questo.

«Ci sono persone che sanno di zuppa di fagioli. Provengono direttamente dai Sessanta, anni di un secolo fatto di cotica e asfalti e non sapevano già gli asfodeli fatti di azzurro e le località climatiche si accomodavano nelle menti disfatte dalle lavatrici, uomini dalle pudenda attonite. Le limitazioni incombono in questi uomini dalla faccia antica ma mai troppo. Urgenti le occupazioni vorticano, capitali, nelle loro aure e nei tarocchi che si fanno fare, i sabati di pomeriggio, perché le antichità li tranquillizzino. Sono anche donne che bevono nei tumbler degli alcolici zuccherosi, adamantini, hanno delle facce di Cassavetes e continua a rotolare tra la polvere e la sanguigna il cadavere di Pasolini e i suoi. Contraddetti dalla nazione, essi la sono. Indossano giubbotti rennati e di pelle lucida nera falsa di nuovi cinesi al mercatino, andavano una volta al mare a Cervia, a Pinarella. Il tempo era quell’850 della Fiat. Gli sfilatini imbottivano di soppressata al bagnasciuga e una sagra era un vecchio paese inesistente, dentro i quartieri dei casermoni in cemento armato, il loro nome era Gratosoglio o simili, ma vivono adesso. Nel tabacchi Picchio ce n’è uno, pur sempre uno. Guarda girare i numeri del lotto televisivo ogni cinque minuti cinque, con un ghigno dedicato a niente di che, agli asfodeli non ci pensa proprio. Sto aggiustando i ritmi, le posture, le cotiche delle frasi. Provengo dalle due notti di paura, come la comunico e a chi è una questione che scuote la cotica e stralcia i miei diritti elettorali interni. L’adunanza silenziosa di spettri interni, a cerchio, dentro il bosco dei suicidi, rarefà i versi, fa dimenticare le poesie, il conforto, le sedizioni eroiche una volta che furono. Questo vecchio non lo è troppo e gioca la scheda del lotto meccanico a una Sisal ogni cinque minuti e si gestisce il trespolo al tabacchi da solo, interdicendo le sigarette agli altri clienti. Abbiamo pazienza con lui. Nella casa dell’infarto che lo prenderà non c’è la moglie, c’è un pollo arrosto freddo di ieri, ancora un Brionvega, delle foto occasionali spinte in un giornalino porno, del rancore verso il figlio che è sempre alticcio come lui, che non è strabico all’occhio come lui, che fa il suo stesso lavoro di pensionato idraulico, di ex impiegato un po’ porno. Il nipotino è di già un imbecille. Le tazze da caffelatte si sbrecciano verso un buio di casa sua che mi fa paura, la notte, quando la cotica del copo mi si trafigge di luce fredda e è tutto un abbaglio, di una siderea incontrata l’altra sera e fatta di autosufficienza in cui consiste un’universale, io contro quel muro di siderea, io quarantasei abeti a scorza dura e muschiata, e resinosa, che a palmo aperto tocco a uno a uno. Questa io dico è sacertà. Sono un fossile che nessuna toccherebbe senza un disguido delle epoche, non sente. Le riduzioni de “I ragazzi della via Paal” attendono sugli scaffali a Romolo che qualcuno passi di là e le prenda. Hanno sempre un avverbio, un aggettivo nella gola irritata dai rigurgiti, gli intellettuali. La contraffazione che applicano alla realtà immensa è di natura dolosa. E’ insopportabile, vedere i loro attonimenti, le loro perizie su falsi di autore, la loro vita come una crosta dei pittori la domenica sui Navigli. Accrescono la potenza del rigetto nella ragazza capitata per caso su un pianeta a disilludersi, da subito, facendo l’intellettuale e spaccandosi in due nomi, in due istanze, mai identificata con la gran cassoela del mondo. Ascolta, tutto il mondo, disilluso. Di notte, a Rogoredo, c’è la bruma all’incontrario, è negativo fotografico di quando, in certe stanze rosse di una luce rotonda rossa che fa il buio un altro buio, fanno gli acidi di sviluppo le immagini, ripetendosi, secondo un’arte fotografica di un artigiano degli anni Settanta italiani e fossili, nelle bacinelle di sviluppo, poi le appendono colle mollette lì dentro a un filo a stare in quella luce di ultrarossi e Kubrick. Questa è la realtà che io conosco: mi faceva paura. C’era la merce al posto del senso che era una merce di scambio tra idioti del mondo, molto lontano dai risvegli di Finnegan e dalle paturnie di Carmelo Bene, in una televisione Brionvega dei tempi a radiazione azzurrina nello schermo concavo, che si illuminava con lui dentro e straparlava: morte, lavoro, sesso, amore, sacro, fuoriuscire, gesto e le eterne pudenda. Era il mio mondo che correva a biglia su piste asfaltate di sabbia contorte con un tunnel e un ponte a Cervia Marittima nel 1976 italiano e un venditore di tappeti mediorientali con degli spiedini di frutta caramellata e nel cartoccio del pane le pesche per riempire lo stomaco tra un bagno e l’altro senza farti annegare, senza carico allo stomaco e dire la Settimana Enigmistica tra sé e sé. Non vanno dette queste cose così, suscitando le ire delle genti che tu vuoi conquistaree sideree, pochissime, per un caso incontrate, rinnovate nei corpi lucidi casuali di notte dentro la luce dei nuovi neon. Qualunque singolarità è vicina all’orizzonte degli eventi attoniti. L’eternità della ragazza è donna. Non esistono i crepuscoli mai più di un pianeta azzurrino blu, è attonito. La tabaccaia è senza un dente e grida contro il vecchio del lotto la frustrazione di essere una vita napoletana, è napoletano anche lui. Vanno a New York e a Londra le luci tenui del tramonto estremo, fatto di luci artificiali a led. Non sono calde e ispirano di stare come quando il tuo corpo di cadavere è nella bara sul trespolo per tre notti lasciato solo in attesa di essere cremato insieme agli altri, altre bare, una notte intera, dentro Lambrate. Con quale pudicizia dirò i miei terrori che mi fanno esistere, resistono sempre. Che chirurgia, che praticone, che filantropia per esistere sono io? Nella notte non lo so, vado nel sonno che giustifica il torto, dà l’alibi, fa sentire tranquillo lo straniero, annulla le pudenda, è tutto attonimento. Nemmeno so come scusare io.»

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