Oro sulla città fredda, oro sulla storia.
Oro sulla città morta. Vi era un affidavit
ai figli, sostavano nelle giuncaglie
i rinoceronti dei padri, i giunchi delle madri.
A Parigi mio padre era mia madre a un, zona Sorbona,
negozietto di alimentari e di pastis e, ricordo?,
la pelle tesa nell’architettura a L della piazzuola
come vedere cadavere uno, brunito, anni pochi di lì, disteso
contratto nella smorfia al braccio cardiaco come un picciuolo disseccato
sta molto male.
Oro della dentiera dentro bicchiere nella toeletta
quando muori se muori era allacciare, ricordi,
uomini siete questo a “uomini siete questo”.
Caracollavo, pendolavo, il dolore, nel corridoio ospedaliero appendo
la mia persona nell’Alzheimer che è qui dentro di loro in venti metri
protetti sulle sedie a rotelle, sulle zingonie inesistenti alle grate
sorelle che vengono a trovare i morti qui
e l’aria d’oro, il corridoio a L, la dirittura dei passi lesi
e lo sguardo azzurro come i suoi versi lunghi
di poesie dai versi lunghi che lui faceva. E non fa più.
Allora uscire da alti latrati delle larve protette,
cosa è se stessi, cosa meridiano, rumine, sonoro?
Un uomo distorto nella grande, d’oro, dentatura
nel reparto protetto o pasto friulano,
che ama? “Non era, questo, il tempo dell’amore
ma unicamente dello stare solo
che dà la fitta acuta allo sterno
come l’inverno a noi sopra la pelle brucia
e dà idea dei ghiacci, delle monete”
d’oro nelle città, Parigi, Berlino, e finire
finirà adesso, finirà ora, essere persona
essere me stesso stanco alle mie cose smesse,
roco come devono essere i padri se sono viventi e vecchi
da una infinitudine stavo osservandoli io i padri per imitarli.