da I miserabili di Victor Hugo:
I • ORIGINE.
«Pigritia» è una parola terribile.
Essa genera un mondo, la pègre (leggete: il furto) e un inferno, la pégrenne (leggete: la fame).
Così la pigrizia è madre: ha un figlio, il furto, e una figlia, la fame.
Dove siamo, in questo momento? Nel gergo.
Che cos’è il gergo? È la nazione e l’idioma nello stesso tempo; è il furto sotto le sue due specie, popolo e lingua.
Allorché, trentaquattr’anni or sono, il narratore di questa grave e triste storia introdusse in un’opera scritta allo stesso scopo di questa un ladro che parlava in gergo, vi furono ad un tempo stupore e chiasso. Cosa? Ma come! Il gergo! Ma il gergo è orribile! Ma è la lingua delle ciurme, degli ergastoli, delle prigioni, di tutto ciò che la società ha di più abbominevole! «Eccetera, eccetera.»
Noi non abbiamo mai capito questo genere di obiezioni.
In seguito, due possenti romanzieri, l’uno dei quali è un profondo osservatore del cuore umano e l’altro un intrepido amico del popolo, Balzac ed Eugenio Sue, avendo fatto parlare dei banditi nella loro lingua naturale, come aveva fatto nel 1828 l’autore dell’Ultimo giorno d’un condannato, videro elevarsi gli stessi reclami. Si ripeté: «Che vogliono da noi gli scrittori, con quel ributtante idioma? Il gergo è odioso! Il gergo fa orrore!»
E chi lo nega? Certo.
Ma quando si tratta di scandagliare una piaga, un abisso o una società, da quando in qua è un torto il discendere troppo, l’andare fino in fondo? Noi avevamo sempre pensato che fosse talvolta un atto di coraggio, o almeno un’azione semplice ed utile, degna della simpatica attenzione che merita il dovere accettato e compiuto. Non esplorare tutto, non studiare tutto, fermarsi per via, perché? Bisogna che lo scandaglio possa fermarsi non lo scandagliatore.
Certo, andare a cercare nei bassifondi dell’ordine sociale, là dove finisce la terra e incomincia il fango, frugare in quelle tenebre vaghe, inseguire, ghermire e buttare ancor palpitante sul suolo quell’idioma abbietto che gronda di fango nel trarlo così alla luce, quel vocabolario pustoloso, ogni parola del quale sembra un immondo anello d’un mostro del limo e delle tenebre, non è un compito attraente né facile. Nulla di più triste del contemplare così a nudo, alla luce del pensiero, il formicolìo spaventoso del gergo; sembra, infatti, ch’esso sia una specie di bestia orribile, fatta per l’oscurità, strappata dalla sua cloaca. Si crede di vedere uno spaventoso cespuglio vivente e irto, che trasalisca, si muova, s’agiti, chieda ancora l’ombra, minacci e guardi. La tal parola assomiglia a un artiglio, la tal’altra ad un occhio spento e sanguinoso; la tale frase pare si muova come le pinze d’un granchio. E il tutto vive di quell’orribile vitalità delle cose che si sono organizzate nella disorganizzazione.
Ma infine, da quando in qua l’orrore esclude lo studio? Da quando in qua la malattia allontana il medico? Si immagina un naturalista che si rifiutasse di studiare la vipera, il pipistrello, lo scorpione, la scolopendra, la tarantola e li ricacciasse nel buio, dicendo: «Oh, come sono brutti»? Il pensatore che torcesse gli occhi dal gergo assomiglierebbe ad un chirurgo che volgesse altrove lo sguardo davanti ad un’ulcera o a una verruca; sarebbe come un filologo che esitasse ad esaminare un fatto della lingua, come un filosofo che esitasse a scrutare un fatto dell’umanità. Poiché (bisogna pur dirlo a coloro che l’ignorano), il gergo è contemporaneamente un fenomeno letterario e un risultato sociale. Che cos’è il gergo propriamente detto? È la lingua della miseria.
Qui, taluno potrebbe interromperci per generalizzare il fatto, il che è talvolta una maniera d’attenuarlo; e potrebbe dirci che tutti i mestieri, tutte le professioni, si potrebbe quasi aggiungere tutti gli accidenti della gerarchia sociale e tutte le forme dell’intelligenza, hanno il loro gergo. Il commerciante che dice: Montpellier disponibile, Marsiglia bella qualità, l’agente di cambio che dice: Riporto, premio, fine corrente, il giocatore che dice: Busso, volo, striscio, l’usciere delle isole normanne che dice: Il censuario che si stabilisce nel suo fondo non potrà reclamare i frutti di questo fondo durante il trapasso per eredità dei beni immobili del rinunciante, l’autore d’operette che dice: Han fatto divertire l’orso, l’attore che dice: Ho fatto forno, il filosofo che dice: Triplicità fenomenale, il cacciatore che dice: Ho tirato a frullo, ma ho spadellato, il frenologo che dice: Amatività, combattività, secretività, il fantaccino che dice: Il mio clarinetto, il cavaliere che dice: Il mio pollo d’lndia, il maestro d’armi che dice: Terza, quarta, rompete, lo stampatore che dice: Collocare sul vantaggio, tutti, stampatore, maestro d’armi, cavaliere, fantaccino, frenologo, cacciatore, filosofo, attore, autore, usciere, giocatore, agente di cambio e commerciante, parlano in gergo. Il pittore che dice: Il mio lavapennelli, il notaio che dice: Il mio scavalcafossi, il parrucchiere che dice: Il mio commesso, il ciabattino che dice: il mio garzone, parlano in gergo. A stretto rigore, e se assolutamente lo si vuole, tutti i diversi modi di dire la destra e la sinistra, come babordo e tribordo per il marinaio, lato corto e lato giardino per il macchinista teatrale, lato dell’epistola e lato dell’angelo per il chierico, sono vero gergo. V’è il gergo delle sdolcinate come vi fu quello delle preziose: e il palazzo di Rambouillet confinava un pochino colla Corte dei Miracoli. V’è il gergo delle duchesse, come attesta la seguente frase, scritta in un bigliettino dolce da una grandissima signora e bellissima donna della restaurazione: «Troverete in quei cicalecci una intensità di motivi perch’io m’abbia a prendere licenza». Le cifre diplomatiche sono gergo; la cancelleria pontificia, dicendo 26 per Roma, grkzintgzyal per invio e abfxustgrnogrkzutu XI per duca di Modena, parla in gergo; i medici del medio evo, che, per dire carota, radice e navone, dicevano: Opoponach, perfroschinum, reptitalmus, dracatholicum angelorum e postmegorum, parlavano in gergo. Il fabbricante di zucchero che dice, da quell’onesto industriale che è: greggio, cima, purgato, stoppaccio, pane, melasso, pane bastardo, ordinario, raffinato, piastra, parla in gergo. Una certa scuola di critica di vent’anni fa, che diceva: Mezzo Shakespeare è gioco di parole e doppî sensi, parlava in gergo. Il poeta e l’artista che, con un senso profondo, qualificheranno il signor Montmorency «un borghese», s’egli non se ne intenderà di versi e di statue, parlano in gergo. L’accademico classico che chiama i fiori Flora, i frutti Pomona, il mare Nettuno, l’amore i fuochi, la bellezza gli allettamenti, un cavallo un corsiero, la coccarda bianca o tricolore la rosa di Bellona, il cappello a tricorno il triangolo di Marte, quell’accademico classico parla in gergo. L’algebra, la medicina e la botanica hanno il loro gergo; la lingua impiegata a bordo, quella mirabile lingua del mare, così completa e così pittoresca, che Giovanni Bart, Duquesne, Suffren e Duperré parlarono, che s’unisce al sibilar dei cordami, al fragore dei portavoce, al cozzo delle asce d’arrembaggio, al rollìo, al vento, alla tempesta e alla cannonata, è tutta un gergo eroico e sfolgorante che sta al selvatico gergo del furto come il leone allo sciacallo.
Certo. Ma, qualunque cosa se ne possa dire, questo modo di comprendere la parola gergo è un’estensione, che neppure tutti vorranno ammettere; quanto a noi, le conserviamo la sua vecchia e precisa accezione, circoscritta e determinata, e restringiamo il gergo al gergo. Il vero gergo, il gergo per eccellenza, se queste due parole possono accoppiarsi, il gergo immemorabile ch’era un regno, non è altro, ripetiamolo, fuorché la lingua brutta, inquieta, sorniona, traditrice, velenosa, crudele, losca, vile, profonda e fatale della miseria. Esiste, all’estremità di tutti gli avvilimenti e di tutte le infelicità, un’ultima miseria che si rivolta e si decide a entrare in lotta contro l’insieme dei fatti felici e dei diritti regnanti; lotta spaventosa in cui, ora astuta ed ora violenta, contemporaneamente malsana e feroce essa aggredisce l’ordine sociale a colpi di spillo, col vizio, ed a colpi di mazza, col delitto. Per le necessità di questa lotta, la miseria ha inventato una lingua di combattimento che è il gergo.
Far galleggiare e sostenere al disopra dell’oblio, dell’abisso anche un solo frammento d’una lingua che l’uomo ha parlato e che si perderebbe, vale a dire uno degli elementi, buoni o cattivi, di cui si compone o si moltiplica la società, significa estendere i dati dell’osservazione sociale, servire la viltà stessa. Questo servigio, Plauto ha reso, volente o nolente, facendo parlare il fenicio a due soldati cartaginesi; questo servigio, Molière ha reso, facendo parlare il levantino ed ogni sorta di dialetti a tanti suoi personaggi. Ma qui le obiezioni si rianimano: — Il fenicio? Benissimo! Il levantino? Ma benone! Passi anche per i dialetti! Sono lingue che hanno appartenuto a qualche nazione o a qualche provincia. Ma il gergo! A che scopo conservare il gergo? A che scopo «far galleggiare» il gergo?
A ciò risponderemo una sola cosa. Certo, se la lingua che una nazione o una provincia hanno parlato è degna d’interesse, v’è una cosa ancor più degna d’attenzione e di studio, la lingua che una miseria ha parlato.
È la lingua parlata in Francia, per esempio, da oltre quattro secoli, non solo da una miseria, ma dalla miseria, da tutta la miseria umana possibile.
E poi, insistiamo, studiare le deformità e le infermità sociali e segnalarle per guarirle non è compito in cui vi sia possibilità di scelta. Lo storico dei costumi e delle idee non ha una missione meno severa di quella dello storico degli avvenimenti; se questi ha la superficie della civiltà, le lotte delle corone, le nascite dei principi, i matrimoni dei re, le battaglie, le assemblee, i grandi uomini pubblici, le rivelazioni al sole, tutto l’esterno insomma, l’altro ha l’interno, il fondo, il popolo che lavora, soffre e aspetta, la donna oppressa, il fanciullo che agonizza, le guerre sorde dell’uomo contro l’uomo, le oscure ferocie, i pregiudizî, le iniquità convenzionali, i contraccolpi in profondità della legge, le segrete evoluzioni delle anime, i sussulti indistinti delle moltitudini, i morti di fame, i vagabondi, gli scamiciati, i diseredati, gli orfani, i disgraziati e gli infami, tutte le larve erranti nell’oscurità. E occorre ch’egli scenda, col cuore pieno di carità e severità ad un tempo, come un fratello e un giudice, fino a quelle impenetrabili casematte in cui strisciano confusamente coloro che sanguinano e coloro che colpiscono, coloro che piangono e coloro che maledicono, coloro che digiunano e coloro che divorano, coloro che subiscono il male e coloro che lo fanno. Ora, questi storici dei cuori e delle anime hanno forse minori doveri di quelli dei fatti esterni? Si può credere che l’Alighieri abbia meno da dire del Machiavelli? Forse che il rovescio della civiltà, per il fatto che è più profondo e cupo, è meno importante del diritto? Si conosce bene la montagna, quando non si conosce la caverna?
Del resto, diciamolo di sfuggita, da talune frasi di quanto precede si potrebbe inferire che una netta separazione fra le due classi di storici non esiste se non nella nostra mente. Nessuno può essere efficace storico della vita patente, visibile, sfolgorante e pubblica dei popoli, se non è contemporaneamente, in una certa misura, storico della loro vita profonda e celata; e nessuno è buon storico dell’interno se non sa esserlo, quando occorra, dell’esterno. La storia dei costumi e delle idee penetra quella degli eventi, e reciprocamente. Sono due ordini di fatti diversi che si corrispondono, che sempre si concatenano e spesso si generano l’un l’altro: e tutti i lineamenti che la provvidenza traccia alla superficie d’una nazione hanno le loro parallele oscure, ma distinte, nel fondo, così come tutte le convulsioni del fondo producono sollevamenti alla superficie. Siccome la vera storia è mescolata a tutto, il vero storico s’immischia di tutto.
L’uomo non è un cerchio ad un solo centro, ma un’ellisse a due fuochi; i fatti sono uno di essi, le idee sono l’altro.
Il gergo non è che una guardaroba in cui la lingua, allorché abbia qualche cattiva azione da compiere, si traveste, rivestendosi di parole che son maschere e di metafore che sono cenci.
In questo modo essa diventa orribile, e si stenta a riconoscerla. È proprio la francese, la grande lingua umana? Eccola pronta ad entrare in scena ed a dare il braccio al delitto, eccola adatta a tutti gli impieghi del repertorio del male. Non cammina più, zoppica e se ne va appoggiandosi sulla stampella della Corte dei Miracoli, la quale stampella può metamorfosarsi in clava; si chiama paltoneria; tutti gli spettri che l’hanno truccata le han dato l’aspetto di vecchia, ed essa si trascina e si rizza, duplice comportamento del rettile. È ormai atta a tutte le parti, fatta losca com’è dal falsario, patinata dall’avvelenatore, annerita dalla fuliggine dell’incendiario; e l’assassino le dà il rosso.
Quando si sta in ascolto, dal lato della gente onesta, alla porta della società, si sorprende il dialogo di coloro che sono al difuori. Si distinguon domande e risposte e si percepisce, senza capirlo, un orrido mormorìo, che ha all’incirca il suono d’un accento umano, ma è più vicino all’urlo che alla parola: è il gergo. Le parole sono deformi e improntate d’una fantastica bestialità; sembra di sentir parlare le idre.
È l’inintelligibile delle tenebre; è un arrotar di denti e un bisbiglio, che completa il crepuscolo coll’enigma. È buio nella disgrazia ed è ancor più buio nel delitto: e queste due ombre, fondendosi, compongono il gergo. Oscurità nell’atmosfera, negli atti, nelle voci. È una spaventosa lingua di rospo che va, viene, saltella, striscia, schizza bava e si muove mostruosamente in quell’immensa nebbia grigia fatta di pioggia, di tenebre, di fame, di vizio, di menzogna, d’ingiustizia, di nudità, d’asfissia e di gelo, pieno meriggio dei miserabili.
Abbiamo pietà dei puniti. Ahimè! Chi siamo noi, dopo tutto? Chi sono io, che vi parlo? Chi siete voi, che m’ascoltate? Donde veniamo? Ed è proprio certo che noi non abbiamo commesso nulla prima di nascere? Non per nulla la terra somiglia un poco ad un carcere; e chissà che l’uomo non sia un pregiudicato della giustizia divina?
Guardate la vita da vicino: essa è fatta in modo tale, che vi si scorge dovunque la punizione.
Siete voi forse quello che si chiama un uomo felice? Ebbene, voi siete triste ogni giorno, poiché ogni giorno ha il suo grande dispiacere o la sua piccola preoccupazione. Ieri stavate tremando per una salute che vi è cara, oggi temete per la vostra; domani si tratterà di una inquietudine per il denaro, doman l’altro della diatriba d’un calunniatore, il giorno seguente della disgrazia d’un amico. E poi il tempo che fa, poi qualche cosa di rotto o di smarrito, poi un piacere che la coscienza e la colonna vertebrale vi rimproverano; un’altra volta, si tratterà dell’andamento degli affari pubblici; e questo, senza contare le pene del cuore. E così via. Una nube si dissipa ed un’altra si va formando; a stento v’è un giorno su cento di gioia completa e di pieno sole. E voi appartenete al piccolo numero dei felici! Quanto agli altri uomini, la notte stagnante incombe su di essi.
Le menti riflessive adoperano poco la locuzione felici e infelici. In questo mondo, evidentemente vestibolo d’un altro, non vi sono felici. La vera divisione umana è la seguente: quelli che sono illuminati e quelli che sono al buio.
Diminuire il numero dei secondi ed aumentare il numero dei primi: ecco lo scopo. Per questo noi gridiamo: «Insegnamento! Scienza!»
Insegnare a leggere, significa accendere il fuoco; ogni sillaba compitata sfavilla.
Del resto, chi dice luce non dice necessariamente gioia. Si soffre, nella luce; l’eccesso brucia, la fiamma è nemica dell’ala. Bruciare senza cessar di volare, ecco il prodigio del genio.
Quando conoscerete e quando amerete, soffrirete ancora. La luce nasce in lagrime; ed i luminosi piangono, non foss’altro, su quelli delle tenebre.
II • RADICI
Il gergo è la lingua delle tenebre.
Il pensiero si sente commosso fin nelle sue più cupe profondità, la filosofia sociale si sente spinta alle sue più dolorose meditazioni in presenza di questo enigmatico dialetto, malfamato e ribelle nello stesso tempo. V’è in esso un castigo visibile; ogni sillaba di esso sembra portare il marchio; le frasi della lingua volgare v’appaiono come raggrinzite e disseccate sotto il ferro rovente del carnefice e talune par che fumino ancora. La tale frase fa l’effetto della spalla d’un ladro, bollata col fiordaliso e bruscamente messa a nudo. L’idea rifiuta quasi di lasciarsi esprimere da quei sostantivi pregiudicati e la metafora è in essa tanto sfrontata, da far capire ch’è stata alla gogna.
Del resto, malgrado tutto ciò e proprio per ciò, codesto strano dialetto ha per diritto il suo scomparto in quel grande casellario imparziale in cui v’è posto tanto per il quattrino ossidato, quanto per la medaglia d’oro, e che si chiama la letteratura. Il gergo, si voglia o no riconoscerlo, ha la sua sintassi e la sua poesia. È una lingua; e se, dalla deformità di taluni suoi vocaboli, si capisce che essa è stata biascicata da Mandrin, dallo splendore di certe metonimie si sente che l’ha parlata Villon.
Quel verso tanto grazioso e tanto celebre:
«Mais où sont les neiges d’antan?»
è del gergo. Antan — ante annum — è una parola del gergo di Thune che significava l’anno scorso, e per estensione, un tempo. Trentacinque anni or sono, all’epoca della partenza della grande catena del 1827, si poteva ancor leggere in una delle segrete di Bicêtre questa massima, incisa con un chiodo nel muro da un re di Thune condannato alla galera: Les dabs d’antan trimaient siempre pour la pierre du Coësre, il che significava: I re d’un tempo andavan sempre a farsi consacrare. Nel pensiero di quel re, la consacrazione era l’ergastolo.
La parola décarade, che esprime la partenza d’un pesante veicolo al galoppo, è attribuita a Villon, e ne è degna. Questa parola, che sprizza fuoco da quattro piedi, riassume in una magistrale onomatopea tutto il mirabile verso di La Fontaine:
«Six forts chevaux tiraient un coche».
Dal punto di vista purarnente letterario, pochi studi sarebbero più curiosi e fecondi di quello del gergo. È tutta una lingua in una lingua, una specie di escrescenza morbosa, un innesto malsano che ha prodotto una vegetazione, un parassita che ha le radici nel vecchio tronco gallico ed il cui fogliame sinistro s’arrampica su tutto un lato della lingua. Questo è ciò che si potrebbe chiamare il primo aspetto, l’aspetto volgare del gergo; ma, per coloro che studiano la lingua come va studiata, ossia come i geologi studiano la terra, il gergo appare come una vera alluvione. Secondoché vi si scava più o meno avanti, si trovano nel gergo, al disotto del vecchio francese popolare, il provenzale, lo spagnuolo, l’italiano, il levantino, la lingua dei porti del Mediterraneo, l’inglese e il tedesco, oltre alla lingua romanza nelle sue tre varietà del romanzo francese, del romanzo italiano e del romanzo romanzo, oltre al latino e, finalmente, al basco e al celtico: formazione profonda e bizzarra, edificio sotterraneo eretto in comune da tutti i miserabili. Ogni razza maledetta ha deposto il suo strato, ogni dolore ha lasciato cader la sua pietra, ogni cuore ha dato il suo ciottolo. Una folla d’anime cattive, basse o irritate, che hanno attraversato la vita e sono andate a svanire nell’eternità, son lì quasi intere, ed in certo qual modo ancor visibili, sotto la forma d’una parola mostruosa.
Si vuole dello spagnuolo? Il vecchio gergo gotico ne formicola. Ecco boffette, soffietto, che viene da bofeton; vantane, finestra (più tardi vanterne), che viene da vantana; gat, gatto, che deriva da gato; acite, olio, che viene da aceyte. Si vuole dell’italiano? Ecco spade, spada, che viene da spada; caruel, barca, che deriva da caravella. Si vuole dell’inglese? Ed ecco il bichot, il vescovo, che viene da bishop; raille, spia, che viene da rascal, rascalion, furfante; pilche, astuccio, che viene da pilcher, fodero. Si vuole del tedesco? Ecco il caleur, il garzone, kellner; lo hers, il padrone, herzog (duca). Si vuole del latino? Ecco frangir, rompere, frangere; affurer, rubare, fur; cadène, catena, catena. V’è una parola che riappare in tutte le lingue del continente con una sorta di potenza e d’autorità misteriosa, ed è la parola magnus; la Scozia ne fa il suo mac, che indica il capo del clan, Mac Farlane, Mac Callumore, il grande Farlane, il grande Callumore; il gergo ne fa il meck e, più tardi, il meg, cioè Dio. Si vuole del basco? Ecco gahisto, il diavolo, che viene da gaiztoa, cattivo, sorgabon, buona notte, da gabon, buona sera. Si vuole del celtico? Ecco blavin, fazzoletto, che viene da blavet, acqua sorgente; ménesse, donna (in senso cattivo), che viene da meinec, pieno di pietre; barant, ruscello, da baranton, fontana; goffeur, magnano, da goff, fabbro; la guédouze, la morte, che viene da guenn-du, bianca e nera. Si vuole della storia, infine? Il gergo chiama gli scudi i maltesi, in ricordo della moneta che aveva corso sulle galere di Malta.
Oltre le origini filologiche qui sopra indicate, il gergo ha altre radici ancor più naturali e che escono, per così dire, dalla mente stessa dell’uomo.
In primo luogo, la creazione diretta della parola. In ciò risiede il mistero di tutte le lingue: dipingere con parole che hanno, non si sa come né perché, una figura. Tale è il fondo primitivo d’ogni linguaggio umano, quel che potrebbe esser chiamato il granito. Il gergo pullula di parole di questo genere, immediate, create tutte d’un pezzo non si sa dove né da chi, senza etimologie, senza analogie né derivanti; parole solitarie, barbare, talvolta sconce, con una singolare potenza d’espressione e che vivono: il boia, il taule; il bosco, il sabri; la paura, la fuga, taf; il valletto, il larbin; il generale, il prefetto, il ministro, pharos; il diavolo, il rabouin. Non v’è nulla di più strano di queste parole, che mascherano e che indicano; alcune di esse, il rabouin, per esempio, sono nello stesso tempo grottesche e terribili e vi fanno l’effetto d’una smorfia ciclopica.
Secondariamente, la metafora. La peculiarità d’una lingua che vuol tutto dire e tutto nascondere, è d’abbondare di figure; poiché la metafora è un enigma in cui si rifugia il ladro che complotta un colpo o il prigioniero che combina un’evasione. Nessun idioma è più metaforico del gergo: svitare il cocco, torcere il collo; attorcigliare, mangiare; essere affastellato, esser giudicato; un topo, un ladro di pane; lanzicchenare, piovere, vecchia figura evidente, che porta in certo qual modo la sua data con sé, assimilando le lunghe linee oblique della pioggia alle picche folte e inclinate dei lanzichenecchi e fa stare in una sola parola la metonimia popolare francese: piovon alabarde. Talvolta, a mano a mano che il gergo transita dalla prima epoca alla seconda, talune parole passano dallo stato selvaggio e primitivo al senso metaforico. Il diavolo cessa d’essere il rabouin e diventa il fornaio, colui che inforna; è più fine, ma meno grande, qualche cosa come Racine dopo Corneille, come Euripide dopo Eschilo.
Certe frasi del gergo, che tengono delle due epoche ed hanno contemporaneamente un carattere barbaro e metaforico, somigliano a fantasmagorie: Les sorgueurs vont sollicer des gails à la lune (i vagabondi, di notte, vanno a rubare i cavalli); ecco una frase che passa davanti alla mente come un gruppo di spettri. Non si sa che cosa si stia vedendo.
Terzo, l’espediente. Il gergo vive sulla lingua e se ne serve a suo capriccio, pescandovi dentro a casaccio, se spesso si limita, quando ne ha bisogno, a snaturarla sommariamente e grossolanamente. Talvolta, colle parole usuali così deformate, complicate di puro gergo, esso compone pittoresche locuzioni, in cui si sente il miscuglio dei due elementi precedenti, la creazione diretta e la metafora: Le cab iaspine, je marronne que la roulotte de Pantin trime dans le sabri (il cane abbaia, io sospetto che la diligenza di Parigi passi nel bosco); Le dab est sinve, la dabuge est merloussière, la fée est bative (il padrone è stupido, la padrona è furba, la figlia è graziosa). Più spesso, allo scopo di tirar fuori di strada gli ascoltatori, il gergo si limita ad aggiungere indistintamente a tutte le parole della lingua una specie di coda ignobile, una terminazione in aille, in orgue, in iergue, o in uche. Così: Vousiergue trouvaille bonorgue ce gigotmuche? per: Trouvez-vous ce gigot bon? (trovate buono questo cosciotto di montone?); frase rivolta da Cartouche ad un secondino, per sapere se la somma offertagli per l’evasione gli conveniva. La terminazione in mar è stata aggiunta piuttosto recentemente.
Il gergo, essendo l’idioma della corruzione, si corrompe presto; inoltre, siccome esso cerca di sfuggire, si trasforma, non appena si sente compreso. Al contrario di qualunque altra vegetazione, ogni raggio di luce uccide in esso quello che tocca. Perciò il gergo va decomponendosi e ricomponendosi senza posa, lavoro oscuro e rapido, che non si ferma mai; e fa più strada in dieci anni, che una lingua in dieci secoli. Così il larton (il pane) diventa il lartif; il gail (il cavallo) diventa il gaye; la fertanche (la paglia), la fertille; il momignard (il fanciullo), il momacque; i siques (gli stracci), i frusqueh; la chique (la chiesa), l’égrugeor; il colabre (il collo), il colas. Il diavolo è dapprima il gahisto, poi il rabouin, poi il boulanger; il prete è il ratichon, poi il sanglier; il pugnale è il vingt-deux, poi il surin, poi il lingre; i poliziotti sono i railles, poi i roussins, poi i rousses, poi i marchand de lacets, poi i coqueurs, poi i cognes; il boia è il taule, poi Chorlot, poi l’atigeun, poi il becquillard. Nel secolo decimosettimo, battersi si diceva: Darsi il tabacco; nel decimonono, si dice rasparsi la gola: e venti locuzioni diverse sono passate fra queste due estreme. Cartouche parlerebbe ebraico per Lacenaire. Tutte le parole di questa lingua sono perpetuamente in fuga, come gli uomini che le pronunciano.
Pure, di tanto in tanto, appunto per quello stesso movimento, il gergo antico riappare e ridiventa nuovo. Esso ha i suoi capoluoghi dove si conserva; così il Tempio conservava il gergo del decimosettimo secolo e Bicêtre, quand’era prigione, conservava quello di Thune. Vi si sentiva la terminazione in anche dei vecchi paltonieri: Boyanches-tu? (bevi?) per bois-tu? E il croyanche (egli crede), per il croit. Ma non per questo il moto perpetuo cessa d’esser la sua legge.
Se il filosofo riesce a fissare per un momento, per osservarla, questa lingua che sfuma senza posa, cade in dolorose ed utili meditazioni. Nessuno studio è più efficace e più fecondo di insegnamenti; non v’è una metafora, non un’etimologia del gergo che non contenga una lezione. Fra quegli uomini, battere, vuol dire fingere: si batte una malattia. L’astuzia è la loro forza.
Per essi l’idea dell’uomo non si separa da quella dell’ombra La notte si dice la sourgue; l’uomo, l’orgue. L’uomo è un derivato della notte.
Hanno preso l’abitudine di considerare la società come qualche cosa che li uccide, come una forza fatale e parlano della loro libertà, come si potrebbe parlare della propria salute. Un uomo arrestato è un malato, un uomo condannato è un morto.
Quello che v’è di più terribile per il prigioniero, nei quattro muri di pietra che lo seppelliscono, è una specie di castità glaciale; ed egli chiama la segreta il castus. In quel triste luogo, la vita esteriore gli appare sempre sotto il suo più ridente aspetto. Il prigioniero ha i ferri ai piedi: ma credete forse ch’egli pensi che coi piedi si cammina? No; egli pensa che coi piedi si balla; perciò, ove riesca a segare i suoi ferri, la sua prima idea è che ora può ballare, e chiama bastringue la sega. Un nome è un centro: profonda assimilazione. Il bandito ha due teste, una che medita le sue azioni e lo guida per tutta la vita, e l’altra, quella che gli sta sulle spalle il giorno della morte; egli chiama sorbona la testa che gli consiglia il delitto e troncone quella che lo espia. Quando un uomo non ha che cenci indosso e vizi nel cuore, quand’è giunto a quella duplice degradazione materiale e morale che caratterizza nelle sue due accettazioni la parola gueux, egli è pronto per il delitto; è come un coltello ben affilato, che ha due fili, la miseria nera e la cattiveria; perciò il gergo non dice un «gueux», ma dice réquisé (un riaffilato). Cos’è la galera? È un braciere di dannazione, un inferno; e il galeotto si chiama una fascina. Finalmente, che nome danno i malfattori alla prigione? Il collegio. Un intero sistema penitenziario può uscire da questa parola. Anche il ladro ha la sua carne da cannone, la materia derubabile, voi, io, il primo che passi: è il pantre (Pan, tutti).
Volete sapere dove sono sbocciate la maggior parte delle canzoni del carcere, quei ritornelli chiamati nello speciale vocabolario i lirlonfa? State a sentire:
V’era al Châtelet di Parigi una grande cantina lunga. Aveva il pavimento otto piedi al disotto del livello della Senna, era senza finestre né spiragli, essendo la porta l’unica apertura; gli uomini potevano entrarvi, ma l’aria, no. La cantina aveva per soffitto una vòlta di pietre e per pavimento dieci pollici di fango; era stata lastricata, ma, sotto il trasudamento delle acque, le pietre s’eran corrose e spaccate. A otto piedi al disopra del suolo, una lunga trave massiccia attraversava quel sotterraneo da una parte all’altra e da quella trave pendevano, a intervalli regolari, catene di tre piedi di lunghezza, all’estremità delle quali v’era un collare. Si mettevano in quella cantina gli uomini condannati alla galera, fino al giorno della partenza per Tolone. Essi venivan spinti sotto quella trave, dove ciascuno aveva il proprio ferrame oscillante nelle tenebre, che lo aspettava; le catene, quelle braccia pendenti e i collari, quelle mani aperte, ghermivano i miserabili per il collo; là veniva loro ribadito il collare, là venivano lasciati. La catena era troppo corta perché potessero coricarsi; ed essi rimanevano immobili in quella cantina, in quell’oscurità, sotto quella trave, quasi appesi, costretti a sforzi inauditi per raggiungere il pane e la brocca, colla vòlta sul capo e col fango fino a mezza gamba, cogli escrementi che colavan loro lungo i garretti, ridotti a pezzi dalla stanchezza, inflettendosi sulle anche e sulle ginocchia, appendendosi colle mani alla catena per riposarsi, potendo dormire solo in piedi, svegliandosi ad ogni momento, per la strozzatura del collare; taluni non si risvegliavano neppure. Per mangiare, facevano risalire col tallone lungo la tibia fino a portata di mano, il pezzo di pane che veniva loro gettato nel fango. Quanto tempo rimanevano così? Un mese, due mesi, talvolta sei: un tale vi rimase un anno. Era l’anticamera della galera: e vi si era messi per una lepre rubata al re. In quel sepolcro-inferno, che cosa facevano? Quel che si può fare in un sepolcro, agonizzare, e in un inferno, cantare. Poiché, dove non v’è più la speranza, resta il canto: nelle acque di Malta, quando s’avvicinava una galera, si sentiva il canto prima di sentire i remi. Il povero cacciatore di frodo Survincent, ch’era passato attraverso la prigione-cantina del Chatelet, diceva: Sono le rime che mi hanno sostenuto. Inutilità della poesia: a che scopo le rime? E in quella cantina sono nate quasi tutte le canzoni del gergo; da quella segreta del Gran Châtelet di Parigi viene il melanconico ritornello della galera di Montgomery: Timalouimisaine timoulamison. La maggior parte di quelle canzoni sono tristi; talune sono allegre ed una è tenera:
«Quest’è il teatro — del piccolo arciere.»
Si ha un bel fare, ma non è possibile annientare l’eterno sopravvissuto del cuore umano, l’amore
In questo mondo delle azioni sinistre, tutti conservano il segreto. Il segreto è di tutti; il segreto, per quei miserabili, è l’unità che serve di base all’unione. Rompere il segreto, vuol dire strappare a ciascun membro di quella selvatica comunità qualche cosa di suo; e denunciare, nell’energica lingua del gergo, si dice: mangiare il boccone, come se il denunciatore tirasse a sé un po’ della sostanza di tutti e si nutrisse d’un pezzo della carne di ciascuno.
Come si dice ricevere uno schiaffo? La metafora banale risponde: si dice vedere trentasei candele. Qui interviene il gergo e riprende: Candela, camoufle. In base a ciò, il linguaggio usuale dà per sinonimo allo schiaffo il vocabolo camouflet. In tal modo, per una specie di penetrazione dal basso in alto, coll’aiuto di quella incalcolabile traiettoria che è la metafora, il gergo sale dalla caverna all’accademia; e Poulailler che dice: J’allume ma camoufle (accendo la mia candela) fa scrivere a Voltaire: Langleviel La Beaumelle mérite cent camouflets (merita cento schiaffi).
Uno scavo nel gergo, vuol dire la scoperta ad ogni piè sospinto. Lo studio e l’approfondimento di questo strano idioma conducono al misterioso punto d’intersezione della società regolare colla società maledetta.
Il gergo, è il verbo divenuto galeotto.
Ed è contristante che la facoltà di pensare dell’uomo possa essere ricacciata tanto in basso, che possa esser trascinata e legata là dalle oscure tirannie della fatalità, attaccata a chissà quali ritorte, in quel precipizio!
Oh, povero pensiero dei miserabili!
Ahimè! E nessuno verrà in soccorso dell’anima umana, in quell’ombra? È suo destino d’attender là per sempre lo spirito, il liberatore, l’immenso cavaliere dei pegasi e degli ippogrifi, il combattente del color dell’aurora, che scende dall’azzurro fra due ali, il radioso cavaliere dell’avvenire? Dovrà sempre chiamare invano al suo soccorso la lancia di luce dell’ideale? È proprio condannata a sentir venire spaventosamente nelle profondità dell’abisso il Male e ad intravedere, sempre più vicina, sotto le acque orribili, quella testa di drago, quelle fauci che masticano la schiuma e quella serpeggiante ondulazione di artigli, di rigonfiamenti e di anelli? È necessario che rimanga laggiù, senza un bagliore, senza speranza, abbandonata, vagamente annusata dal mostro formidabile che sta per avvicinarsi a lei che, fremente e scapigliata, si torce le mani, incatenata per sempre alla rupe della notte, cupa Andromeda candida e nuda nelle tenebre?
III • GERGO CHE PIANGE E GERGO CHE RIDE
Come si vede, tutto il gergo, tanto quello di quattrocento anni or sono quanto quello d’oggi, è penetrato di quel cupo spirito simbolico che dà a tutte le parole, ora un portamento dolente, ora un’aria minacciosa. Vi si sente la vecchia tristezza selvatica di quei paltonieri della Corte Dei Miracoli che giocavano a carte con mazzi particolari, alcuni dei quali ci sono stati conservati; l’otto di fiori, per esempio, rappresentava un grande albero che portava otto foglie di trifoglio, sorta di fantastica personificazione della foresta, e, ai piedi di esso, si vedeva un fuoco acceso, sul quale tre lepri facevano arrostire allo spiedo un cacciatore e dietro, sopra un altro fuoco, una pentola fumante, dalla quale usciva una testa di cane. Nulla di più lugubre di codeste rappresaglie pittoriche, sopra un mazzo di carte, al cospetto dei roghi che arrostivano i contrabbandieri e della caldaia che bolliva i falsi monetarî. Le varie forme che il pensiero prendeva nel regno del gergo, perfino la canzone, perfino la beffa, la minaccia, avevan tutte quel carattere di impotenza triste; tutti i canti, alcune melodie dei quali sono state raccolte, erano umili e lamentevoli fino alle lagrime. Il pègre si chiama il povero pègre ed è sempre la lepre che si nasconde, il sorcio che scappa, l’uccello che fugge. È molto se reclama; si limita a sospirare. Uno dei suoi gemiti è giunto fino a noi: Je n’entrave que le dail comment meck, le daron des orgues, peut atiger ses mômes et ses momignards et les locher criblant sans être atigé lui-même (non capisco come mai Dio, il padre degli uomini, possa torturare i suoi figli e i suoi nipoti e sentirli gridare, senz’essere torturato egli stesso). Il miserabile, ogni qual volta ha il tempo di pensare, si fa piccolo davanti alla legge e meschino davanti alla società; si getta bocconi, supplica e cerca di toccare il tasto della compassione. Si sente che sa d’aver torto.
Verso la metà del secolo scorso, avvenne un cambiamento. I canti di prigione e i ritornelli dei ladri presero, per così dire, un atteggiamento insolente e baldanzoso. Il lamentoso maluré fu sostituito da larifla. Si ritrova nel decimottavo secolo, in quasi tutte le canzoni delle galere, degli ergastoli e delle ciurme, un’allegria diabolica ed enigmatica; vi si sente codesto ritornello stridente e saltellante, che si direbbe illuminato da un bagliore fosforescente e che sembra buttato là nel bosco da un fuoco fatuo che suoni il piffero:
Mirlababi, surlababo,
Mirliton ribon ribette,
Surlababi, mirlababo,
Mirliton ribon ribo.
Questo si cantava, sgozzando un uomo in una cantina o in un recesso d’un bosco.
Sintomo serio, nel diciottesimo secolo l’antica malinconia di queste classi sinistre si dissipa. Esse si mettono a ridere e pigliano in giro il gran dab e il gran meg; regnando Luigi XV, esse chiamano il re di Francia «il marchese di Pantin». Eccole quasi allegre; una specie di luce leggera esce da quei miserabili, come se la coscienza non pesasse più loro. Non solo quelle lamentose tribù dell’ombra hanno l’audacia disperata delle azioni, ma hanno pure la noncurante audacia della mente. Indice, questo, ch’esse perdono il senso della loro criminalità e sentono, perfino fra i pensatori ed i sognatori, un appoggio che questi ignorano; indice che il furto e il saccheggio incominciano ad infiltrarsi fino nelle dottrine e nei sofismi, in modo da perdere un po’ della loro bruttezza e da darne molta ai sofismi ed alle dottrine; indice, finalmente, se non insorge alcuna diversione, di qualche prodigio prossimo a sbocciare.
Fermiamoci un momento. Chi accusiamo qui? Il decimottavo secolo, forse? La sua filosofia? No, certo. L’opera del decimottavo secolo è sana e buona; gli enciclopedisti, Diderot alla testa, i fisiocrati, con Turgot, i filosofi, con Voltaire, e gli utopisti, con Rousseau alla testa, ecco le quattro legioni sacre. L’immensa avanzata dell’umanità verso la luce è loro dovuta; sono le quattro avanguardie del genere umano che vanno verso i quattro punti cardinali del progresso, Diderot verso il bello, Turgot verso l’utile, Voltaire verso il vero e Rousseau verso il giusto. Ma, al fianco e al disotto dei filosofi, v’erano i sofisti, velenosa vegetazione mista al rigoglio salubre, cicuta nella foresta vergine. Mentre il boia bruciava sullo scalone del palazzo di giustizia i grandi libri liberatori del secolo, scrittori oggi dimenticati pubblicavano, con regio privilegio, scritti stranamente disorganizzatori, letti con avidità dai miserabili; alcune di queste pubblicazioni che, bizzarro particolare, eran sotto il patrocinio d’un principe, si ritrovano nella Biblioteca segreta. Questi fatti, profondi, ma ignorati, passavano inavvertiti alla superficie. Talvolta, è per l’appunto l’oscurità stessa d’un fatto che ne forma il pericolo: esso è oscuro perché è sotterraneo. Di tutti questi scrittori, colui che scavò nelle masse, forse, la più malsana galleria, fu Restif de la Bretonne.
Questo lavoro, peculiare di tutta l’Europa, produsse il maggior guasto in Germania, dove, durante un certo periodo, riassunto da Schiller nel suo famoso dramma I Miserabili, il furto ed il saccheggio s’ergevano a protesta contro la proprietà e il lavoro, certe idee elementari, speciose e false, giuste in apparenza e assurde nella realtà, s’avvolgevano in quelle idee e, in certo qual modo, vi sparivan dentro, prendevano un nome astratto e passavano allo stato di teoria; e in tal modo circolavano tra le folle laboriose, sofferenti ed oneste, all’insaputa di quegli stessi chimici imprudenti che avevan preparato la miscela, e all’insaputa delle masse che l’accettavano. Tutte le volte che si produce un fatto di questo genere, la cosa è grave. Il dolore genera la collera; e mentre le classi prospere s’accecano o s’addormentano, il che significa ugualmente chiuder gli occhi, l’odio delle classi infelici accende la torcia a qualche mente stizzosa e mal fatta che medita in un canto e si mette ad esaminare la società. Oh che cosa terribile l’esame dell’odio!
Da ciò, la gravezza dei tempi consentendo, quelle spaventose sollevazioni un tempo chiamate giacquerie, al confronto delle quali le agitazioni puramente politiche sono giochi da ragazzi e che non rappresentano più la lotta dell’oppresso contro l’oppressore, ma la rivolta del disagio contro il benessere.
Tutto crolla, allora. Le giacquerie sono i terremoti del popolo.
E appunto a tagliar corto con questo pericolo, imminente, forse, in Europa, verso la fine del decimottavo secolo, sopravvenne la rivoluzione francese, immenso atto di probità.
La rivoluzione francese, che non è altro se non l’ideale armato di gladio, si rizzò in piedi e, collo stesso brusco gesto, chiuse la porta del male ed aperse quella del bene. Pose la cosa nei suoi termini esatti, promulgò la verità, scacciò il miasma, risanò il secolo e incoronò il popolo.
Si può dire di essa che ha creato l’uomo una seconda volta, dandogli una seconda anima, il diritto.
Il secolo decimonono eredita la sua opera e ne approfitta, ed oggi la catastrofe sociale che indicavamo or ora è semplicemente impossibile. Cieco chi la denuncia! Sciocco chi la teme! La rivoluzione è il vaccino della giacqueria.
Grazie alla rivoluzione, le condizioni sociali sono mutate. Le malattie feudali e monarchiche non sono più nel nostro sangue; non v’è più medio evo nella nostra costituzione. Non siamo più ai tempi in cui spaventevoli sommovimenti sismici irrompevano, si sentiva sotto i piedi il correre oscuro d’un rumore sordo, apparivano alla superficie della civiltà taluni rigonfiamenti da gallerie di talpe, il suolo si spaccava e la vòlta delle caverne s’apriva e si vedevano ad un tratto uscir dalla terra mostruose teste.
Il senso rivoluzionario è morale. Il sentimento del diritto, sviluppato, sviluppa il sentimento del dovere. La legge di tutti è la libertà, che finisce dove incomincia la libertà altrui, secondo la mirabile definizione di Robespierre. Dall’89 in poi, tutto il popolo si dilata nell’individuo sublimato; non v’è povero che, con il suo diritto, non abbia il suo raggio; il morto di fame sente in sé l’onestà della Francia; la dignità del cittadino è una armatura interiore; chi è libero è scrupoloso; chi vota regna. Da ciò l’incorruttibilità, da ciò l’aborto delle malsane cupidigie, da ciò gli occhi eroicamente abbassati davanti alle tentazioni. Il risanamento rivoluzionario è tale che, in un giorno di liberazione, un 14 luglio o un 10 agosto, non v’è più popolaccio. Il primo grido delle folle illuminate e in via di sviluppo è: «Morte ai ladri!» Il progresso è galantuomo e l’ideale e l’assoluto non rubano. Da chi furon scortati, nel 1848, i convogli che contenevano le ricchezze delle Tuileries? Dai cenciaiuoli del sobborgo Saint’Antoin. Il cencio montò la guardia davanti al tesoro: la virtù rese splendidi quegli straccioni. V’era in quei convogli, entro casse a mala pena chiuse, e talune perfino socchiuse, in mezzo a cento scrigni sfavillanti, quella vecchia corona di Francia tutta in diamanti, sormontata dal carbonchio della regalità del Reggente, che valeva trenta milioni; ed essi custodivano a piedi nudi quella corona.
Quindi, non più giacquerie. Me ne dispiace per gli abili; è un vecchio spauracchio che ha fatto il suo tempo e che non potrebbe ormai più essere impiegato in politica. La grande molla dello spettro rosso è spezzata: lo sanno tutti. Lo spaventapasseri non spaventa più; gli uccelli si fanno familiari col fantoccio, gli stercorarî vi si posano ed i borghesi ci ridon sopra.