I pupazzi televisivi degli anni Ottanta

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Tutto è incominciato e finito con certi pupazzi grossolani, oggetti di pezza a forma di bipedi o quadrupedi, colorati male e tagliati peggio, cuciti con punti inoppugnabilmente dilettanteschi, dalle movenze poco raffinate e prive di psicologia ma non di caratteristiche: i loro pudori espressi con le manine conserte dietro e la testolona che si curva con finta verecondia, la rabbia col petto che sporge mostrando lo sterno e agitando troppo il pelame multicolore, il finto imbarazzo interessato, le malizie, la propensione alla menzogna orribilmente furbetta e meschina, l’appropriazione indebita come finalità non oscura, il raggiro e il deliquio pre-erotico, lo strusciamento contro i tessuti, altrettanto volgari, delle loro spalle umane. Apparvero sulla tv di Stato italiana, che poi sarebbe stata l’emittenza privata. Le loro voci allucinate, le loro tonalità più nasali che baritone, la loro genericità sessuale e l’orizzonte delle speranze che tratteggiavano implicitamente – era una visione del mondo che prendeva corpo e si faceva storia. Dal topo cattolico dell’Antonianum e dello Zecchino D’Oro (tutto, sempre, era oro falso, erano gettoni, erano i premi, erano la Zecca italica contro il Fort Knox statunitense) ai Five e agli One, il rovesciamento nostrano della crew dei Muppet avveniva secondo le cifre da strapaese, con cui l’Italia si poneva ad avanguardia del mondo. La dialettica di queste bambole incantatorie era superficialmente forbita, linguisticamente incardinata nel valore lessicale, secondo la lezione nominalistica di Mike Bongiorno e Pippo Baudo che dominavano ai tempi e di Paolo Bonolis che avrebbe dominato successivamente, quando l’era spettacolare avrebbe avuto il suo interprete più abilitato nel pupazzo più disturbante del secolo, cioè il Gabibbo. In questo capovolgimento dell’avanspettacolo, dove il gesto della maschera Totò presume di assurgere a erede e rappresentante dell’uomo medio e dell’intera classe medioabbiente, si manifesta la verità che l’organico, compreso il fenomeno umano, prima di dissolversi in immagine pure e disincarnata, partecipa di una semivita inorganica che, un tempo, fu per i cuccioli dell’uomo l’oggetto del desiderio. La morale del giocattolo o la metafisica della bambola, ai tempi in cui ne discettava Baudelaire, consistevano nella via più piacevole alla visione dell’anima: l’anima, quando la durezza dell’io non si è ancora imposta, è tutto ma anche qualcosa – e quel qualcosa è un giocattolo, spesso una bambola. Sventrata, essa testimonia del fatto che l’anima non c’era: eravamo noi che ci giocavamo assieme. Di qui ha inizio la tristezza e lo sconforto per un mondo inaridito e induritosi quanto l’io. Quell’inquietudine trasmessa dal pupazzo, che è la versione puberale del monumento, diviene la meccanica resasi in qualche modo autonoma. E’ ciò che accadde ai pupazzi televisivi degli anni Ottanta: erano la premessa a un sentimento del mondo arresosi alla dura realtà delle cose, che le cose vanno da sole, si animano, mediano tra se stesse e un inattingibile altro, vorticando per l’affanno umano tutte attorno nel mondo, pronte a espandersi nel cosmo, poiché non sono connesse biologicamente al respiro, che è l’unica forza che ci ancora sul pianeta e ci impedisce di allontanarcene con la naturalezza del robot, che è la risurrezione a vita nuova del monumento. Nell’inflessione vagamente brianzola del bambolo televisivo si dava la fine di un’epoca, la spettacolare, e l’inizio di un futuro: il nostro, che non è presente se non in quanto futuro che si avvera di giorno in giorno, per costruire il Grande Pupazzo sussunto oltre le Immagini, oltre Noi Stessi.

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