Improvvisa epifania della mia formazione andata

Al bar di Enrico, polivalente ventunenne di terza generazione italocinese, entra un sosia di Giacomo Giossi. La città è svuotata, luglienga. La cupola del cielo colore amianto dice: polluzione, tu sei l’animo milanese, sei futuro e sei passato, entra in me e ti farò conoscere la forma della perennità italiana. Il sosia di Giossi chiede le nuove Chesterfield con la capsula. Non so di cosa parli. Enrico risponde: non sono nuove. Il tizio le chiede da dieci. Enrico risponde: non le ho. Le Lucky al Mohito? Le ho. Giossi risponde: ma non mi piacciono. Le Camel? Capsula a che gusto? Lime.
Dietro di me si spalanca uno spettro del futuro passato. Esistevano queste sigarette al mentolo, costavano duemilacinquanta lire. Sgambettavo nella piazza, mi infilavo dal tabaccaio, le chiedevo. Sembravano Muratti, sigarette future con il filtro ai carboni attivi, come le suolette antiodore per le scarpe da tennis, fatte di un lattice strano, verde, con delle misure di un piede 52, linee curve continue o tratteggiate, per tagliarle a seconda del numero che avevi tu e, sull’altra faccia, un materiale kevlar sconosciuto e alieno, secondo la voga di quei tempi, quando esistevano degli After-Eight cancerogeni e li ritirarono dai supermercati, cioccolatini a sfoglia, separati da strane cartaveline della consistenza di strani fogli che usavi a scuola a educazione tecnica, per fare dei progetti tecnici ricalcando i fogli bristol, trasparenti della stessa plastica di carta scrivibile di questi cioccolatini nella scatola verde scurissimo con i caratteri troppo italic d’oro, e in mezzo alle sfogliette di cioccolato una crema lattescente che sapeva del mentolo delle sigarette, troppo tumorale per via di temibili addittivi che iniziavano con la “E-” maiuscola e poi numeri a tre cifre, gravissimi, quando li trovavi, in quanto sapevi che veniva il cancro, apparentemente come il formaggio Dover, in barattoli di vetro grandi al pari di quelli della maionese Calvé, un formaggio fuso alla consistenza di uno yogurt e ritirarono anche quello, mentre non ritiravano mai le Big-Babol, gomme a mattoncino del colore dell’epidermide caucasica, quadretti di pelle di una gomma sontuosa, che liquefaceva in bocca stimolando le salive di noi tutti, dal sapore “E-qualcosa” rosa, forse fragola, ma una fragola distantissima, una memoria di fragola, una fragranza. Nascostamente acquistavo queste sigarette Polo al mentolo e andavo a fumarle in piazza Martini, avevo quattordici anni, prima che costruissero il muretto e quindi esistessero i ragazzi del muretto, l’unico muretto che si sapeva esistere mi pare fosse a Viareggio. Mi sedevo sulla panchina, mattina presto, prima di andare al liceo classico con l’autobus 37, dalla parte povera della piazza, distante dai percorsi di mio padre, per paura di lui, e facevo lunghi tiri, aspettando il colpo portentoso del mentolo nei polmoni: un battito, un bussare dentro. Poi, confuso dal fumo di mentolo che faceva schifo, prendevo l’autobus e andavo nel ginnasio dove ero il più povero, ma non importa, avevo il Rocci Greco-Italiano di mia cugina Paola ricca, me lo prestava per quei cinque anni, preoccupato dall’aoristo e savio nelle versioni, per l’esattezza che quella lingua morta esigeva da noi tutti al banco, nella versione, cercando la soluzione più elegante, quasi algebrica o, peggio, geometrica, la geometria di una frase tradotta su carta da duemila e passa anni fa: che ressa nella mente, che fase oscura aurea della vita era, che primo amore ovunque nell’aria brunita del mio liceo classico. Mi acquattavo nelle scale verso la palestra, un ammezzato, con una bidella Noemi dalla voce roca per dei polipi in gola e le sigarette, in quanto ero bravo e dopo un’ora avevo già finito la versione, rimaneva un’ora, di noia e di scoperta della vita comune nei bagni di liceo, dove apparve la scritta di gioia per il suicidio del professor Quadrelli, di greco e latino della sezione H, che si era impiccato o buttato giù dal balcone o dal ballatoio, un erudito molto severo ai limiti del delirio, che aveva fatto molto male alla mia cugina, Paola, molto ricca, e sulle piastrelle sui muri del bagno del liceo Berchet esultavano alla sua morte, con un pennarello, Noemi non riusciva a cancellare, con l’alcol denaturato non veniva via. E era bello, tantissimo, sniffare la bottiglia di plastica molle dell’alcol denaturato, una plastica semitrasparente da cui vedevi l’alcol rosa quasi fucsia, più rosa delle Big-Babol e meno dell’orticaria: aprivo il tappo rosso ciliegia e c’era un foro per spruzzare precisamente un getto forte e magro di alcol denaturato rosa, aveva questo profumo fastidioso, penetrava le nostre froge e ci sembrava di drogarci, acuti, nitidi, immensamente complici, sulle scale degli scantinati, più ammoniacali e lucidi dei tossici, di eroina, rena morta, semivivente, come la rena quando turbo spira. Quando tornavo a casa la vita si sospendeva come ora sempre. Quindi trascorsero gli anni e fui io la perduta gente: io fui niente, se non questo sguardo, amato, consegnato, restituito sotto le fronde del salice piangente.

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