L’orrore infinito a cui mi sottopongono i miei coetanei non è infinito affatto e avrà termine con la mia scomparsa fisica. Nel frattempo non mi risparmiano nulla. Per esempio, si propongono come avanguardia dell’esercizio più alienante che si possa immaginare oggi: sostituire il denaro con un gioco. Si tratterebbe della rivoluzione: via i soldi, giochiamo liberi. Non è così, purtroppo, come sempre, quando si tratta dei 50/35enni, una fascia anagrafica che corrisponde all’incirca a ciò che un tempo si diceva essere una generazione. Imbolsiti dall’esperienza allucinatoria degli Ottanta o cresciuti in quella altrettanto psicotica dei Novanta, essi si appoggiano a qualunque sperone di roccia spunti dalla parete fin troppo liscia del loro intimo progresso, il che è sinonimo di invecchiamento, pur di ricordare, essere nostalgici, farsi di madeleine dalla mattina alla sera, per equilibrare le cristate che tirano sul lavoro o i fallimenti ormonali che si rinnovano in epoca di indebolimento del desiderio, tanto quanto si praticavano nell’era in cui il desiderio era forte ma la vita era ancor più forte e piegava la carne in ogni caso. Il 2.0, il 3.0, il 4.0 è pur sempre una possibilità di resipiscenza di ciò che è passato, quei bei momenti della formazione e della pubertà prolungatasi fino ai trenta o quaranta, che abbisognano, come lo zucchero, di robuste iniezioni successive: un botulino per il proprio immaginario, in pratica, e per sopportare le sferzate dell’esistenza. Presi di mezzo come il prosciutto nel sandwich, i coetanei, che solitamente sono dei privilegiati senza accorgersene, o berciano sull’esclusione delle loro tenerezze dalla storia oppure si prendono una pausa caffè, pensando che forse Tinder è troppo ma Facebook va bene per chiavare o, come dissero ai tempi, per cuccare. Quando iniziarono a muoversi le carte coi pupazzetti nipponici, che distrattamente e snobisticamente osservarono, ovviamente scandalizzati per le costumanze di coloro che erano più giovani di loro, ritennero essere giunta la fine della storia. Ora che fanno un corpo unico e coetaneo con quei giovani poco scapestrati, ai tempi intenti a manovrare le carte da gioco di Pikachu, sono pronti a gettarsi a pesce nel gioco più coetaneo che c’è: quello della realtà aumentata. Un aumento di realtà lo cercano da mo, i coetanei, perché la fase storica è stata secondo loro ingenerosa con i loro sogni, che non esistevano e al limite consistevano nel fare grano senza fottersi degli altri e sussurrare urla in feste su spiaggia e sul parquet di case di amici circa lo sfaldamento del tessuto sociale e l’esaurimento del politico. Eccoli accontentati: ora i Pokémon si muovono a prescindere dalla carta e la rivoluzione si fa coi Google Glasses ma senza Google Glasses, ridendo e scherzando, via smartphone, che ieri si chiamarono cellulari come quelli che caricavano i compagni durante le manifestazioni per portarli in procura. Ciò che prima si presentò come farsa si presenta oggi in vesti di tragedia. La tragedia è il silenzioso, l’incomunicato e l’incomunicabile, quindi è un dispositivo inadatto ai coetanei, che preferiscono un nuovo device, disperandosi e inorgogliendosi per l’utilizzo disinibito dei tablet da parte dei figlioletti. E’ una specie di ultracorpi sfigati ma dannosi, quella dei coetanei. L’inesistente iddio degli induisti non voglia che ci si reincarni e si faccia l’esperienza rinnovata di altri coetanei: preghiamo in silenzio, laicamente e senza alcuna speranza, ma anche senza alcuna illusione, noi, i coetanei ai coetanei.