Arrivo alla clinica odontoiatrica di primo mattino: è sporca. E’ sempre l’errore statale, italiano, lo si sa, e è l’ennesimo ospedale, dell’anno, luogo in cui la salute è incerta, messa a repentaglio nel momento in cui si tenta di recuperarla, è il segno, dei tempi, del luogo. Qui mi attendono sulla poltrona del paziente e inseriscono le leve nella vite di carico, stando “attenti a non spezzare il blocco di osso apicale”, facendo fuoriuscire bene pulita la vite dall’osso, dove un tempo si appoggiò un molare superiore a sinistra. Manovra, lussa, dolce, squisitamente, il professore e crea in me la cortocircuitazione, nella sua competenza e attenzione a me, paziente, se solo ripenso a chi quella vite me la sparò nell’osso, vent’anni fa precisamente, quando scrissi “Assalto a un tempo devastante e vile” e infilai quella specie di ausiliario dei miliardi, con la sua borsa in goretex si portava dietro uno studio di implantologia, era pelato e pareva un neonato o un bonzo muscolare, polvere d’osso in polvere d’acqua veniva sparata in una sabbiatura in bocca, ne uscii stordito nella primavera milanese, quindi acida e di amianto, nell’anno 1996, in uno studio abusivo in viale Molise, non avevo i soldi. Quindi trascorsero anni e mi ritrovo a sottrarre ciò che fu inserito, il corpo di un inserto metallico e tubolare, a spirali, qualcosa di cosmonautico e sovietico, che avevo nella bocca. L’uomo cerca protesi, essendo esso stesso una protesi, da quando sollevò l’osso altrui il primate e lo lanciava in un cielo di amianto all’alba dei tempi aurei, metallici, cosmonautici. Fa perno su di me e sono interessanti le vibrazioni craniche, le martellate delicate arrivano alle fosse orbitali e incrinano il seno nasale, c’è osso nel vestibolare e erodono il palatale: penso al teschio. Il teschio che ho è dolico, è magro, il resto è grasso: se sollevo lo strato dell’epidermide ecco il giallo, il rossogiallo spugnoso, il bianco: depriviamolo della carne. Subisce colpi l’occhio sinistro, che è gel soltanto più duro e cervicale, innestato ai nervi. E’ una copula il corpo tutto, quanti lipidi che ci sono. Dalla finestra osservo le partorienti andare, nella clinica dove nascono, con la protesi del corpo, spugnosi, neonatali, animi esili in una carne esigua, che cresce zuccherina con i suoi metabolismi. Mi divaricano un poco di più, un poco di più… Sono colpi a leva, prende la pinza per i premolari, fa perno, dura un’ora?, la svita?, frattura l’osso? Dice “il settimo lo rendo instabile così”, il molare organico, devitalizzato, sul fondo verso la glottide, lui lavora nella cavea e è assistito. Lo osserva e valuta un professore venerato. La assistente è un medico e non ha pietà delle mucose, divarica e aspira. Di fronte muore una partoriente. Quindi cede: non la vite, l’osso. Ecco l’uovo di piombo depositarsi sulla lingua secca, che non raggiunge il palato sotto anestesia che pare gonfio, e l’ematoma è in corso. Tronfiaggine della materia, che, se sfiorata, gonfia se stessa e reclama l’attenzione che ritiene di meritare, la guardiamo ripararsi, la carne, l’osso, l’anima, esigua. Il sacchetto si spezza, del ghiaccio, così si attiva e rende insensibile la guancia, tiepida come una primavera. C’è una luce toscana fuori della finestra, oltre i neon. Le infermiere reclamano l’attenzione. Ti ciberai freddo. Sarai antibiotico. Antinfiammerai. Così per i tre giorni, prima di quale resurrezione non so e non vedo, uscendo, se non i labirinti sotterranei al Policlinico, bassi arcuati, soffocanti, dove preparano pesce congelato per la mensa e i pazienti in residenza, trascinando i prodotti tra le strie di acqua rilasciate da ghiacci ammoniacali che indovino… Sul motorino torno a casa, vent’anni dopo, bucato, traforato, trasformato. Torno a donare, menomato, la corteccia, sotto i salici piangenti e scrivo…