“Costretti a sanguinare” di Philopat: nuova edizione

costretti_a_sanguinareA metà anni Novanta ero disperato, come sempre. Credevo in una scrittura che dirompesse e non me l’attendevo certamente dal me stesso, che avvertivo come una particola di rabbia e strana lucidità, inadatta alla composizione linguistica, poiché la lingua non era tutto. Cosa era tutto? Vivevo l’abbandono della poesia, il che per me significava affrontare un vuoto identitario abissale, nonostante fossi appena venticinquenne. A quei tempi, davvero, si potevano scontare problemi del genere. Speravo in una scrittura collettiva e, al solito, confidavo che fosse possibile ridere: ridere tutti assieme, scherzare nel gioco, essendo il gioco l’attività più seria e creativa e politica che conoscessi, e lo scherzo costituendo la sua più naturale declinazione. Odiavo Hegel, leggevo Debord e Baudrillard e Burroughs, avvertivo la necessità di andare oltre Kafka, mi intorcinavo nei pensamenti sul superamento di un’alienazione cogente, di massa, mentre comprendevo che la tecnologia arrivava a praticare un salto di qualità, che non riuscivo a immaginare così penetrante e subitaneo come in effetti abbiamo sperimentato, però mi pareva chiaro che mutava tutto, radicalmente. Non sapevo come attrezzarmi per tale mutazione. Ero incerto circa la tenuta delle discipline umanistiche. Non mi laureavo: non soltanto perché una laurea mi sembrava del tutto inutile a fronte di un’esperienza che il lavoro mi comminava ben prima del termine ortodosso degli studi; ma anche perché l’irrigidimento delle strutture pedagogiche mi pareva andare di pari passo a qualcosa che andava conclamandosi, ovverosia l’intrinseca debolezza e lentezza dell’armamentario filosofico e linguistico rispetto ai tempi che stavano arrivando. Mi stavo specializzando in logica matematica proprio per questo motivo, percependo che bisognava andare a fondo del linguaggio, comprendere Godel e mettere in comune le elaborazioni intorno al sorgere di linguaggi ben diversi da quello umano. La coscienza co’è? Ecco la domanda: mi tormentava… Accanto a ciò, ancora: la scrittura: mi tormentava… Le scritture andavano svoltando. La migliore di quel tempo mi pareva agitarsi sotto uno pseudonimo collettivo, che era Luther Blissett. Mi pareva che fosse esattamente la forma adeguata ai tempi, non soltanto quelli che vivevo, ma quelli che avrei vissuto. Era una fucina che elaborava forme, scomponeva e ricomponeva canoni, senza compiacimento per il gioco combinatorio e lugubre che praticavano fuori dall’Italia i potmoderni (vedevo bene che il postmoderno, l’Italia, se lo era mangiato a priori, non c’era nessun postmoderno italiano, la nostra maniera era la mania del postmoderno). Le scritture andavano allineandosi. Tra cannibalismi un poco leggeri e qualcosa di più denso che andava manifestandosi. La chance poetica mi tornava vivente in prosa: una resurrezione per me inaspettata. Quindi arrivò Philopat.
Mi ricordo la sensazione di freschezza e di libertà totale, quando, nel 1997, uscì “Costretti a sanguinare”, la prima tappa della trilogia firmata da Marco Philopat. Si compiva a mia detta un tempo di svolta per le lettere nostrane. Anzitutto ci si levava un carapace angosciante e imposto da padri e madri misconosciuti, quasi fosse un’eredità genetica e dunque ovvia. C’era poi il discorso della storia: il punk era morto?, il futuro stava a zero? No. Incredibilmente per gli spiriti più scettici e condizionati, una stagione fioriva in prosa poetica, si allineava con una novità tutt’altro che nuova, bensì primaria, che era costituita dalle leggi del respiro, cioè dell’invenzione (della vita, dell’arte, dell’individualità e dunque della collettività, dell’errore e della sfrenatezza, a sua volta elemento indispensabile per l’invenzione stessa). La lettura dal vivo di brani dell’opera, con Philopat innervosito e adrenalinizzato dalla performance, era (ed è) francamente esaltante. Ho amato e amo questo libro, che ora viene ripubblicato e rivisto da Agenzia X Edizioni. schermata-2016-10-09-alle-09-56-25Si misura qui almeno mezzo secolo di immaginario e di canone, di antropologia e di politico: di arte non solo per l’arte. Wu Ming propone uno splendido speciale, che non è un rilancio, bensì una conferma di questa scrittura in perenne sperimentazione. Si intitola “Asor Rosa non ascoltava i Sex Pistols. Punk e antagonismo a #Milano in due libri, dall’epopea del #Virus allo sgombero del #Leoncavallo (1989)”.
Leggetelo, c’è qui del fondamentale, ci sono i fondamentali.

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