“Westworld”: una speranza

Al di là delle filologie, che mai nella vita avrei pensato applicabili ai libri di Michael Crichton e la cui plausibilità definisce a mio avviso la qualità del mondo che viviamo, mi pare una serie che potrebbe essere definitiva. La ricchezza di chance narrative è altissima e la tematica ne farebbe l’opera neotv più aggiornata sul presente avanzato, ovverosia quella porzione di tempo che andiamo a sperimentare e che si definisce, in certo occidente, attraverso i crismi della convergenza, da cui emergerà l’intelligenza artificiale. Il tema, dunque, è tempestivo. La sua declinazione sarebbe impressionante. Dispone di un plausibile scontro tra alto e basso (gli umani creatori sopra; i robot sotto), di una dialettica dentro e fuori (il parco tematico e quanto c’è fuori dai confini, ovvero il mondo stesso), dell’unità da cui deriva la molteplicità (il creatore, non a caso di nome Ford, e le sue creature, cioè le gerarchie aziendali umane e gli automi del parco). C’è tutto, in una struttura simile. C’è il conflitto etico, c’è l’amore trasceso e il trascendimento dei generi sessuali e financo dello specifico della nostra specie, c’è la possibilità del racconto teologico, c’è il metalivello, c’è la visione dall’alto delle “linee narrative” (un problema fondamentale, su cui si impernia la vita del parco tematico, che è appunto una plurinarrazione), c’è la lotta di classe, c’è l’opportunità di creare la devianza. Non è un caso se la letteratura è il cuore del problema, al punto che è una citazione da Shakespeare a segnalare il “contagio”, grazie a cui le macchine divengono coscienti. Le citazioni dalla vecchia tradizione umanistica sono coefficienti del superamento stesso di quelle tradizioni. Se non siamo difronte alle possibilità dell’antica nuova epica, poco ci manca. E quale poco ci manca? Ci manca qualcosa che ha un’estensione e una storia: gli Stati Uniti d’America. Il differenziale, mi pare, lo fanno loro, i nordamericani. E’ probabile e auspicabile che io sia smentito. Ho tuttavia la sensazione che, come spesso capita, davvero l’ingenuità statunitense, che è un marchio di fabbrica, non so se Ford o cos’altro, sia vocata allo spreco delle chance narrative. L’immaginario statunitense, divenuto tout court occidentale, conduce a estremi e posizioni di avanguardia: quindi arretra. La ricchezza di “Westworld”, che a mio parere non è a disposizione di molte serie e film realizzati in questi anni, consiste in una somma di possibili derive universali, teologiche e tragiche, in un numero praticamente infinito. Chi ha lavorato alla premessa di una simile situazione deve essere molto bravo; si spera che non sciali. Vista la seconda puntata, l’impressione è che invece si proceda allo spreco di una grande occasione, mi spingo a dire culturale prima che narrativa. A quel punto si spererà che passino gli algoritmi al comando e che costruiscano per noi le chance narrative e culturali.

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