Non esiste a mio parere un punto più avanzato in cui le arti, nel nostro presente, siano giunte rispetto a dove è arrivato Don DeLillo in “Zero k”, appena uscito in traduzione italiana per Einaudi (la traduzione è opera di Federica Aceto). Il passaggio storico detta i ritmi a una disciplina fattasi minoritaria, in un senso che l’esperienza storica umana non aveva sperimentato mai, in quanto il testo è direttamente in mutazione, nella quintessenza, ovvero in un modo che credo non sia collocabile in alcuno sviluppo storico. Tale disciplina artistica minoritaria, la letteratura appunto, esprime con “Zero k” l’acuzie dell’impensabile, condotta a espressione. Non c’è alcun lavoro artistico, in qualunque forma, musicale video o tridimensionale, che sia entrata in questo modo nel presente che stiamo vivendo in questi anni di accelerazione, il quale è un tempo fatale, una transizione in cui le antiche strade sono state percorse tutte e le future paiono predeterminate e non dal fenomeno umano. Comprendo bene che a chi non ama DeLillo questo libro possa non piacere; e comprendo bene che possa dispiacere anche chi ama DeLillo. E’ un libro di kenosi e profezia, dove lo stile esiste per non esistere. E’ un libro in cui il tema sembra coincidere con la forma. Tuttavia tali categorie interpretative sono abolite, affinché lo sguardo sia liberato ed entri in una nudità che non importa più se sia storica o astorica o metastorica: essa è vissuta, siamo storicamente impulsati a viverla in questa fase, nella quale il volatile e il permanente non sono più in opposizione. Siamo di fronte a una scrittura finale solo nel senso in cui può esistere un’epica finale, cioè un canto dell’inizio posto nella fine – ciò si è sempre detto “nucleo tragico”, ma non è più la storia della tragedia che possiamo impegnare a fronte di un inabissamento e di una fuoriuscita tanto precisi, abbacinanti e *nuovi*. Il canto dell’accelerazione lo ha modulato per noi Don DeLillo e non importa che resti. E’ un libro che considero indispensabile nella mia formazione permanente – e mi sto accorgendo, con un dolore che avverto nelle fibre della mia esistenza piccolina, che non ci sono tanti libri capaci di formarmi permanentemente e nemmeno libri che mi formano volatilmente. Tanto vorrei ringraziare questo scrittore, questo uomo, a cui devo un incontro con certa magistralità, la quale non è proiettiva o emotiva. Egli è per me il massimo scrittore del secolo che vivo attualmente e gli sono grato come sono grato agli autentici poeti, che hanno sempre e per sempre abolito qualunque distinzione tra prosa e poesia, tra cielo e terra, tra volere e essere.
(Spero di avere tempo e occasione di scrivere più diffusamente e meno cripticamente del libro e dello scrittore in questione, del che darò notizia immantinente, ci macherebbe…)
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