Il 30 giugno 2006 si tenne a Palazzo Te a Mantova, nell’àmbito del festival teatrale Arlecchino, la performance intitolata Fabula Orphica, per voce e corpo, su testo di Giuseppe Genna e regia di Federica Restani. Le voci recitanti erano di Federica Restani e Raffaele Latagliata, gli attori erano Chiara Olivieri, Daniele Ziglioli. Ecco il testo integrale. A questo link, le singole parti nella videoregistrazione dello spettacolo (alcune tracce audio sono incappate nella censura di YouTube e risultano al momento disattivate).
FABULA ORPHICA
di Giuseppe Genna
Rappresentazione danzata e musicata per due voci recitanti
[“Annum per annum” di Arvo Pärt]
[F] Apriamo il Libro Inesistente, il Libro Mai Scritto, scritto Sempre. Scritto nel tempo che non è il nostro, di noi umani, la specie delle effimere strette nel corpo, che con mani incerte scava la terra e si procura tane. E il cuore si stringe e si dilata e la nostra legge è la fine. Il Libro Senza Parole che solleva dal sisma del dolore, seguìto dal piacere seguìto dal dolore seguìto dal…
Il Libro della Potenza che sei Tu. Che è Io. Che ha un nome come altri e non lascia tracce sulla terra ottenebrata. Áncora sulla terra, fecondissima di dolore e gioia, la forza stabile, la non dicibile, la via di mezzo che percorri senza sapere e poi sai.
Sàlvati.
Il suo nome è Orfeo, il suo esito sei Tu.
[R] Tornato dalla spedizione degli Argonauti. Quelli, solcando mari sconosciuti, come noi puntiamo verso Orione con altra specie di convogli, passarono la zona dominata dalle Sirene e il canto di quelle rendeva folli, tesi a morte certa. Sulla prua installato, Orfeo cantò, figlio di una Musa e di un mortale. Cantò il canto impossibile da sovrastare, il canto di tutte le note, il fascio dei suoni udibili e dei non udibili, l’ohm perenne, e le Sirene furono tacitate e gli Argonauti ottennero quanto vollero. E tornarono.
E ritornato, disceso dalla solida nave, Orfeo cantava, la lira modulava stati sonori dell’essere-qui, lo seguivano docili le cose e le belve e gli umani e incantati gli dèi. Le pietre rotolavano al passare di Orfeo che canta. E si levò un albero: albero che nell’orecchio sale, elevazione pura. Oggi stesso Tu ti muovi nel suo canto, respiri nel suo canto, vivi nel suo canto. All’essere-qui la sua parola avanza. E s’innamorò: di Euridice.
[F] Io ti vedo e non canto, amore. Bianca, biancovestita. Sagoma di luce nella luce. I piedi nudi, la pelle stellare. Un serpe striscia nell’erba dove tu fuggi da un altro uomo, preso d’amore alla tua immagine stellante. Io sono fermo e senza cantare osservo il serpe avvelenarti il piede, avvelenarti il corpo, te dileguarti in ombra offuscata e rilasciarti in salma, crisalide svuotata, non più radiante.
Io ti vedo e non canto, amore: tu sei morta.
[R] Sono discesa, amore mio Orfeo, sono discesa… Potenze sotterranee, folle inimmaginabili, e mute e pallide e oscure, tentano di bere sangue da ciottole di legno come latte. Il latte attira i morti. Non cadere nel latte. In questo non immaginato vortice, io, Euridice, non so chi sono. Confusa da me, sono senza “me”, non sono “io”. Questo è il luogo dei morti, dove membra inesistenti afferrano aria satura di virus, la pestilenza degli sguardi incavi bui, le torme dei senza nome. Di qui non sono più reclamabile, amore mio Orfeo.
[F] No.
Dai due regni dilato la mia ampia natura e scendo. Vedo: si alzano le fumarie. Venga dalla tomba o dalle lenzuola dove fummo l’amore, non si sfoca a me l’immagine. Io vengo a reclamarti. Vivi in figura, ancora, al modo mio: io ti vedo. Il regno dei morti è una e una sola vibrazione della mia lira. Io scendo come cade un corpo morto, che ha aperti gli occhi e sa dove finire. Attenzione è la mia cetra, io sento che sono “io”. Folle irreali. Fantasmi di defunti onorati. Caronte. Spettri lumescenti. Io, solo io, giungo alla presenza di Persefone e del signore che regge lo squallido regno dei morti. E per domandarti loro, io canto.
[“Annum per annum” di Arvo Pärt]
[R] Noi, il regno dei non vivi e dei non morti, siamo schiantati dal tuo canto impossibile, il tuo canto è tutto, ci supera, siamo noi e te e tutti e tutte le cose, il tuo è il canto di Ciò Che Regge. Immutabile sopra ogni legge, compie ogni legge. Le anime essangui piangono. Tantalo si accascia e smette di tentare l’acqua che sfugge al sorso. La ruota d’Issìone si arresta stupita. Avvoltoi più non rodono il fegato a Tizio. Depongono l’urna le nipoti di Belo. Tu, Sisifo, siedi sul tuo macigno. Alle Furie, strappate dal canto, per la prima volta lacrime sulle gote. Impossibile per questo regno opporre un rifiuto alla preghiera di Orfeo. Il canto sibila, erompe, stabile, allucinante.
Chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava e venne avanti, con passo reso lento dalla ferita. Poteva riportarla verso la luce, misteriosa sostanza in cui ci eleviamo noi i mortali, alberi fatti di frassino e organi molli. Ma non doveva voltarsi a guardarla: sarebbe stata risucchiata nel regno morto.
[F] E io mi volto. Imperfetto, non ancora qualificato a questo compito io, io sospetto che lei sia un’ombra di quella vera. Non comprendo più nulla. Non comprendo “me”. Dispongo del canto che muove, io non so come “io” mi muova. E mi volto e la vedo. Amore, vedo per troppo amore slacciarsi le tue membra in fumo e compio per mia colpa l’irreparabile: perché? Ti allontani verso la sede degli impuri. Riconoscendoti, non ti ho salvata: non ho riconosciuto “me stesso”.
E’ finita.
Agnello, caddi nel latte.
[R] Fu sconfitto. Salito alla luce senza amore: ecco l’uomo-dio che ha tentato e ha fallito, e dall’interno non ha condotto la beanza nel mondo. Vivo, è come morto. Si trascina nel dono del canto, inutile come il bimbo rapito e ucciso appena rapito.
Si ritirò sull’alto Ròdope e sull’Emo battuto dai venti. Per tre volte il Sole aveva concluso l’anno, finendo nel segno acquatico dei Pesci. Orfeo non aveva amato altre donne, per dolore, per voto. Era dove lui era un colle, e sul colle una radura piana e priva d’ombra. Ma lui vibrò un accordo in canto, l’ombra si diffuse: apparve l’albero della Caonia, e il bosco delle Eliadi, il rovere svettante, i tigli flessuosi, il faggio, alloro vergine, fragili avellane, frassino che fa le lance, abete senza nodi, leccio pesante di ghiande, platano iridescente, acero multicolore, salici di fiume, loto di acqua, bosso sempreverde, tenere tamerici, mirto bicolore, timo dalle bacche azzurre, edere in groviglio, pàmpini di viti, olmi viluppati, e ornielli, pìcee, corbezzoli carichi di frutti rossofuoco, palme serene, e il cipresso, che ricorda il sonno eterno.
Lì stava e meditava.
Gli umani si chiesero cosa, non si chiesero nulla.
[F] Felice e beatissimo sarò, anziché mortale. Agnello, caddi nel latte. Sono figlio di Terra e Cielo stellante. So che il vivere è morire e il morire è vivere.
Improvvisa la bellezza brilla intera ai miei occhi, insieme ai beati, che vedo in coro, seguo l’Unico Io, perfetto e immune dai mali che mi attendono per il futuro, visione perfetta, calma, beante, in una luce pura e senza oggetto, puro io stesso e non sepolto nella tomba del corpo, segno di quanto ho fallito: doppio fallimento il mio, ed Euridice fu il secondo.
Io àncoro in terra un nuovo Dioniso, io spalanco la strada a lui, seguendomi diverrete lui, che è l’Unico Io.
[F+R] Purificazione per l’antico cordoglio.
[R] Dice Plutarco: “Come altissime aquile guardano verso l’alto i saggi: sembra loro d’involarsi fuori del corpo verso una distesa regione luminosa, che dona all’animo rapido slancio, qui frenato dal corpo. La meditazione serve loro a prepararsi alla morte. La fine della vita è un bene”. Continuerete a vedere, tremule visioni rapidissime, prima di ascendere fuori dell’ottundimento. Siete deità e non lo sapete. Chiedete, ognuno: “Io, chi sono?” e la risposta vuota inanella luce in luce, siete sacri.
[F] Pervaso, dunque, pervaso di coraggio e consapevole che mentre vivo nel corpo sono lontano dall’Unico Io, cammino nella coscienza della visione, sono pervaso di coraggio, esco da questo corpo dalla sommità del capo e vado presso il Me Stesso.
[R] Fermo stava alla sommità del monte e mutò il mondo. Ancorava la visione eterna, la vuota, sconosciuta prima.
Dedite al culto ancestrale che lui riduceva in pezzi, lo assalirono le Baccanti, dette anche Ménadi, Tìadi, Bassàridi, Bistònidi, Mimallóni, Edòidi. Di notte, mentre Orfeo dormiva essendo cosciente, lo assalirono e lo ridussero a brani, gli staccarono gli arti, strapparono le mani, spezzarono le ossa, tagliarono le arterie, mozzarono il capo.
Egli rimase impassibile e con il canto potente poteva frantumarle. E però aveva già frantumato tutto quanto era da frantumare, ancorato in terra quanto era da ancorare.
E la sua testa si mosse, nell’aria, indipendente: un pianeta con occhi socchiusi, il cratere della bocca da cui escono le note di ogni sfera e di ogni strato di questa misteriosa composita conca, che è dove vivi tu. E cantava. Testa roteante, infinitamente, vòlta alle costellazioni, tra istante e istante dove non è il tempo ma ciò che fonda il tempo, ruota la testa di Orfeo che canta.
[F] Così si ripete: ero uno e sono fatto a pezzi, ed egualmente sono uno. Io mi spezzo come pane per voi e canto il canto stabile, la frequenza che genera gli universi e percorro le costellazioni e le galassie delle vostre menti.
Ciò che Tu sei, lo sarò.
Ciò che Tu hai fatto, io lo farò.
Voi sentite ognuno “io” come io lo sento.
[F+R] Questo è il segreto rivelato.
[F] Raggiunta la morte, l’anima avverte una sensazione simile a quella di chi mi ha seguìto meditando a lungo, per lunga convivenza con la Cosa Che Non Si Sa. Raggiunta la morte, anzitutto è il vagare logorante, senza fine, di traverso fitte tenebre, passando da un piano all’altro attraverso il buio, ma affinando la sottile percezione è il mio canto fermo e stabile e non decresce. Allo svanire delle tenebre, si vedono cose impressionanti. Poi si hanno i brividi e i tremori e sudori e sbigottimenti. Dopo questo si fa incontro una luce mirabile: e l’anima si ritrova in un luogo puro, dove vive in levità di gioia.
[F+R] Questo è il penultimo passo.
[F] Il fuoco sale spontaneamente verso la testa e brucia da sotto il figlio monocolo della terra.
Cielo Stellante.
Figlio della Terra, destinato al silenzio puro, che è il mio canto stabile che non decresce.
Istruzione: vi si presenteranno due fontane, avvertirete arsura. Non bevete da quella a sinistra, dove sorge un cipresso bianco. Accostatevi a quella di destra, dove attendono due custodi. Pregateli di bere. Quella è la Ricordanza.
Sarete risolti.
Non tornerete alla tomba.
Non tornerete a segno alcuno.
La mia progenie è celeste.
Siete voi.
Venite tra i puri. Volate via dal ciclo gravoso di affanni.
Vitelli, lanciatevi nel latte.
Siete già ora beanza.
Ascoltate: siete la desiderata corona.
Siete Questo.
[“Annum per annum” di Arvo Pärt]