Ieri ho fatto la figura più penosa e colpevole degli ultimi anni. Sono passato a una pompa di benzina, oltre al pieno chiedevo di gonfiare le gomme del vecchio motorino, l’addetto sudamericano o centramericano mi ha indicato la colonnina della pressione, si è diretto lì ad aspettarmi, ho rimesso in moto e in un colpo sono arrivato lì, in prossimità della colonnina con per ristabilire la pressione delle gomme, l’addetto scherzando chiede di non essere ucciso dalla frenata per l’accelerazione eccessiva che ho impresso al motorino e io ho risposto: no, ci mancherebbe se la uccido, poi mi arriva la pandilla e ammazza me. Evidentemente questo è il bambino Giuseppe, è quella tensione preadoloscenziale, quella sovraeccitazione, quella pulsione all’effusività isterica e istericamente ridanciana, utilizzare le parole per sorprendere il destinatario, sedurre con le parole, qui era fargli sapere che conosco il sostantivo “pandilla”, la parola che indica le bande di latinos. Capirai che grande, Giuseppe: condivideresti una parola con un ecuadoregno o salvadoregno. Pensa che lui ne condivide migliaia nella tua lingua nazionale. Pensa che è venuto qui da latitudini meno fortunate, stya lavorando a una pompa di benzina, ti gonfia le gomme gratis. Fa finta di non avere compreso, quella parola, “pandilla”, mi guarda dal basso con lo sguardo indio dei popoli estinti e inquietanti sudamericani, la zigomatura spessa e larga, non si permette nemmeno di scuotere la testa, mentre dice: “Ma se a lei dicessero che, se la si uccide, arriva la camorra o la mafia, come la prenderebbe? Io non ho niente a che fare con quel mondo, altrimenti non sarei qua a lavorare a una pompa di benzina…” dice, calmo, né surriscaldato dalla rabbia né gelido per l’iracondia, mi scruta franco dal basso, mi seziona all’istante, mi sloga, strappa i miei arti, mette a nudo il cuore e già qui mi verrebbe da scrivere “come negli antichi sacrifici umani dei suoi padri ancestrali”, ripetendo la gaffe, il tentativo di omicidio che perpetravo, l’indegnità del razzismo implicito e colpevole di cui mi sono macchiato. Sento una pena dura, al mediastino, dove le inquisizioni cattoliche elaborate dalla mia gente colpirono strappando in due i corpi degli eretici o supposti tali. Sono colpito nella mia metà, entro in una pena che ancora non sono riuscito a estinguere, a distanza di molte ore. Come sono niente o peggio che niente! Un’entità corrosiva, se non controllo a ogni istante io sono un omicida morale, capace di ridurre a zero l’altro, con la pavidità che si nasconde dietro e tra le parole, la mia pavidità augustea, tutta italiana, piccoloborghese, microfascista, il difetto d’origine del moralista più meschino che con tutta evidenza non dorme in me, non è sepolto in me: è in me assai attivo e vigile, pronto a colpire, esterno alla cultura del contenimento che pratico su di me senza accorgermi. Ho visto la mia radice nera e viscida, la mia anaconda interiore che stritola con placida incoscienza, la mia antropologia orrenda, la mia insinuazione… Lo scrivo, sapendo che la confessione non è nulla, è soltanto una piccola narrazione per mettere in linea gli istanti del mio peggioramento. Con una smorfia di schifo cerco di ritrarmi da me stesso e non basta. Ho preso il motorino e sono andato lontano, nella nebbia tumultuosa, sulla preferenziale, attaccandomi alla mia pena e alla mia colpevolezza ad altezza petto, nella mia metà, io sempre io, mai trasceso, mai abbandonato nemmeno un attimo, un cretino occidentale che pencola con il suo motociclo da pochi euro, sono andato via…