Qui sono al San Fermìn, trattoria bar accanto a casa mia, nel 2009, al cospetto dello chef basco Ignaki. In quel momento andavo a essere privo di lavoro, per rimettermi nella costante, direi perenne, situazione di affanno di chi cerca la sussistenza, provenendo da un terziario avanzato che concede sempre meno guarentigie – ero, in pratica, pronto a non sapere dove sbattere la testa. Trattandosi dell’anno precedente il 2010, l’anno davvero fatale, che secondo me ha mutato in Italia geneticamente le antropologie e le relazioni, comprese quelle lavorative, la mia disperazione veniva molcita dai rapporti umani e dalle strumentazioni che un tempo pregresso consentiva di impegnare – Ignaki mi offriva il caffè gratis, a volte anche la paella basca. Oggi mi pare tutto diverso, più duro e livido, da affrontarsi con strumentazioni e rapporti che hanno sì dell’umano, ma si tratta di un umano differente, modificato appunto, abituato a frammentazione e incapace di offrire zone di silenzio prestabilito o anche soltanto un poco stabile. La storia di questi ultimi sette anni, che include il drammatico decesso del cuoco Ignaki, è per me una vicenda in qualche modo ardua, perché di profonda trasformazione dei canoni e dei paradigmi a cui ero abituato. L’esposizione a fluttuazioni e aggiustamenti identitari, personali e collettivi, segue il ritmo di un’accelerazione che comunica disagio quanto esaltazione e impone degrado quanto buona sorte. Prima del 2010 era, in pratica, aura di una certa innocenza, di una certa infanzia. Non si può che accettare la sfida, ma non è più questione né di vincerla né di perderla – è questione di *passare del tempo*, di tempo che passa a una velocità diversa e maggiore, di fare passare il tempo: bisogna mangiare la fame di tempo che abbiamo.