In questi giorni, dieta thriller, per tornare a fare cigolare i meccanismi antichi e sempre contemporanei. La dieta è a base di: James Ellroy, Derek Raymond, Jo Nesbø, Stephen King. A settembre esce per Mondadori il nuovo libro, a cui si è lavorato in questi anni e che nulla ha a che vedere con il thriller, e intanto io sto tornando alle amate latitudini degli esordi, reimmergendomi in atmosfere che non ho mai realmente abbandonato, come dimostrano certi entusiasmi su piccolo schermo, da “The killing” a “True detective”. Dalla stesura della pentalogia nera, che ruota intorno al personaggio “Lopez”, sono passati alcuni anni, che si rivelano decisivi nel determinare la consunzione di temi, personaggi, soggetti, retoriche e strutture del thrilling, inteso nella sua più vasta accezione. L’esplosione del nero ha sortito l’effetto di nebulizzarlo. Certo, può andare bene *ripetere*: il nero non è altro che infinita variazione cardiaca di un medesimo organo centrale, che ha a che fare con un mito fondativo, cioè anche sfondativo. E’ un annacquamento continuo, che alle folle di lettori continua a interessare. Sto guardando la serie tv canadese “Cardinal”, che tenta di innovare variando soltanto la visione di certi spazi che prima erano interdetti all’occhio (nello specifico: l’azione del massacro della vittima in tempo reale, senza ellissi). Anni fa, quando lavoravo a “Nel nome di Ishmael” o a “Grande Madre Rossa”, avevo l’intenzione di sfondare le cosiddette gabbie di genere, compiendo un’operazione di poetica sul genere stesso. A oggi non avrebbe senso alcuno sfondamento: una nuvola non si sfonda, il nero è ormai una nube, come qualunque canone. Si tratterà quindi di inventare nella nube. Ciò significa perdere l’ambizione di ordine allegorico e simbolico. Del resto, c’è una proliferazione simbolica, nella nube del nero, che fa impressione: simbologie e simbologie reiterate e fatte germogliare, intorno a nuclei che restano intatti, come le caratteristiche di dannazione e tormento degli indagatori tanto quanto degli indagati. Si è espanso in questi anni un regno sterminato che è fatto popolare da freak e disturbati inseribili nel DSM, il manuale clinico delle personalità disturbate. Sono gli stessi anni in cui si è vaporizzato anche il canone storico. L’interpretazione della storia in chiave noir, per esempio, che è la chiave di lettura proposta da Ellroy, perde in stile e si rivela puramente teatrale nell’ultimo “Perfidia”: il cuore nero di Ellroy aveva carattere quasi teologico o, meglio, dostoevskiano – e si smarrisce fatalmente, non per quanto è in sé nel libro, bensì per via del contesto allargatissimo (allagatissimo) in cui è calata questa narrazione, che un tempo fu potente e oggi lo è un minimo di meno: quel minimo di meno determina la sua secondarietà. Così il complotto verticistico, inscenato nella maledizione londinese di Raymond, non attacca più, si è scollato il contesto, ovvero il mastice tra parete e carta da parati: il complotto è meno affabulatorio di qualche anno fa. Di Jo Nesbø vorrei non parlare neppure, perché piace, e moltissimo, solo in un’epoca di palati abituati a un basso grado di gusto, ovvero palati ricoperti da afte, causate da patogeni arrivati dall’esterno: non c’è lingua, la costruzione è bambinesca e l’unico argomento che mette a tacere ogni critica è la potenza di vendita, che nemmeno è più mainstream. Non mi pare la letteratura, o più precisamente la testualità scritta, che oggi realizza il thrilling. Infatti Stephen King, l’unico dei quattro autori in esame che si salva alla grande, spesso non è stato almanaccato come letteratura, essendo penetrato in un àmbito di invenzione ulteriore, non certo ultimo. Così “True detective”, che ipostatizza tutto il simbolico del nero, per trascenderlo. Entrambi i soggetti, l'”area King” e “True detective” hanno in comune la prossimità al paranormale, al medianico. Sono le narrazioni più esplicitamente metafisiche – eppure non hanno meno successo di Jo Nesbø, sono anch’esse mainstream. Via dallo storico e via dall’allegorico: si deve penetrare in un nero più nero, più atrabiliare.
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Prosecuzione dei pensamenti sul thriller che verrà: giungono elementi di realtà non opinabili. Per esempio, le fotografie inedite del Pentagono in fiamme l’11 settembre 2001. Ai tempi diedero, e credo diano anche oggi, numerosi elementi di sospetto intorno all’attentato: erano poco significative le tracce dell’areo che impattava. Sono trascorsi sedici anni ed è mutato tutto. Non solo c’è Trump al posto di Bush Jr, il che è incredibilmente peggio, nessuno avrebbe predetto che gli americani sarebbero riusciti a comminare al mondo qualcosa di peggio di “quella scimmia del presidente”, per dirla con un verso che Battiato comminò all’inquilino della Casa Bianca. Tuttavia, se pure anche oggi circolano interpretazioni complottiste sulle Torri Gemelle e il boeing al Pentagono, un’allure è andata perduta. Vale per tutte le narrazioni spy e, quindi, anche per il thriller in sé. La deflagrazione dei sottogeneri del nero impone di sentirsi molto meno sperduti, rispetto a un tempo. L’allerta infinita, che la svolta dell’11/9 finì per imporre al mondo, occidentale e non, sovrasta con la realtà qualunque narrazione di fantasia, eppure si può sempre inventare e ricavare un racconto all’interno di questa congerie, che ha reso attualità e reiterazione lo stato di guerra permanente a più o meno bassa identità, in cui siamo fatalmente immersi. Così Clancy potrebbe continuare a pubblicare i suoi sommari narrativi stracarichi di tecnicismi Cia e di tecnologia bellica, Ludlum avrebbe agio di variare da Bourne, Le Carré risulterebbe vintage ma convincente. Il punto è la polverizzazione dell’antagonista. Ai tempi di “Nel nome di Ishmael” potevo ancora permettermi di identificare nel controllo americano uno dei tanti elementi di realtà e finzione attiva – e così nei thriller successivi, quando per l’appunto stava avvenendo la riorganizzazione fintamente securitaria di tutto ciò che prima era compattamente dominio statunitense. E oggi? Il potere ha disperso i contorni della sua figura cardinale, ovvero il re. Il grande antagonista non è ravvisabile nel complotto, non privo di affabulazione, bensì improbabile quanto a realismo e molto masticato dalle ruminazioni narrative a ogni latitudine. C’è un ammanco di realtà, che spinge verso un’entrata privata, quasi intima, per raggiungere l’universo nero. Siamo dunque, per quanto mi riguarda, fuori dalla portata epica, per come si intendeva l’epica fino a pochi anni fa. Si rischia molto il combinatorio, il giochetto, la macchinina del fango in cui rimestare le trame e se stessi. Ciò che è nero, credo, è in un qualche modo monomandatario, ma non si sa di quale mandato. La chance della narrazione metafisica resiste, intatta, mentre il politico e l’economico sono travolti dal tecnologico, saturo di promessa e di futuro. Prende vita la necessità, tutta mia personale, della formazione a parte del personaggio. La struttura del thriller è da sempre teologica, ma quale teologia ha corso in tempi in cui nemmeno la morte di Dio interessa?