“Cardinal” è una miniserie canadese in sei puntate, prodotta dalla HBO e a suo modo perfetta, il che determina che non decolla. Deve essere trasmutata o allargata, per condurla al di là della sua piccola perfezione, che risiede nell’esattezza geometrica con cui gli sceneggiatori si sono mossi tra gli stilemi del genere detection. C’è tutto e tutto è al suo posto giusto: la coppia investigativa, l’ipotesi di complotto interno, la coppia dei colpevoli, l’oltranza sulle vittime, l’inappartenenza a un regime simbolico condiviso e quindi l’approfondimento di manie compulsive da parte sia di chi indaga sia di chi è indagato, il buio e il claustrofobico, la corruzione e l’immoralità, il regime famigliare sfasciato a ogni livello, le location esotiche e gelide che creano una sorta di contropiano a “True detective”, serie alla quale la sigla di “Cardinal” si ispira patentemente. Cosa intendo, se dico che non decolla? Intendo che ormai una narrazione thrilling è orizzontale, se ripetta i complessi e molto evoluti cliché di genere, pur disponendo di una regia professionalmente alta e competente e a tratti più o meno sorprendente. Il compito è dunque svolto benissimo. Si ravvedono comunque oltranze, rispetto al solito, particolarmente nel disvelamento di ciò che prima era ellittico, cioè le violenze in tempo reale sulle vittime, che sono l’autentico momento d’avanguardia di un prodotto particolarmente composto e corretto nella scrittura. Il casting, anche, è perfetto: per esempio, l’interprete del protagonista John Cardinal è Billy Campbell, che rivestiva il ruolo del candidato in “The killing”, affiancato da una non così scontatamente sorprendente detective Lise Delorme, interpretata dalla canadese Karine Vanasse, davvero molto brava. Al momento non si crea memorabilità. Perché? Suppongo per due motivi: manca l’ingaggio metafisico e il contesto storico in cui si iscrive questa ennesima variazione nera è svantaggioso. E’ proprio la dimostrazione di quanto suppuri il bubbone nero. Qualunque salvezza, qualunque redenzione, così come qualunque dannazione, in qualche modo trovano interdizione nel racconto nero contemporaneo. Serve compiere uno sforzo ulteriore, con tutti i rischi del caso, dalla possibilità di fallire il mainstream al crollo in qualcosa di agrammaticale (come nel caso di “The OA”). Serve un salto in un universo altro che sia qui e ora, nell’universo che consideriamo reale, cioè nel realismo.