Secco, implacabile, autoptico, indefettibile: lo stile di Jean-Patrick Manchette, in tandem con Jean-Pierre Bastid, nel finora inedito “Che i cadaveri si abbronzino” (Edizioni del Capricorno) appare in tutto il suo nitore e nell’ansia di rendere aggredibile una situazione storicamente determinata, e cioè la deriva patrizia a inizio degli anni Settanta, quando stava per incattivirsi la deriva libertaria dovuta a quell’esplosione sociale che fu il maggio francese. Il piombo di quel decennio è preconizzato dalla scrittura chirurgica dell’autore francese, il genio che rivoluzionò il genere nero. L’andamento a sceneggiatura è rigoroso e il godimento è interdetto per via della laicissima profezia che prevedeva con mirabile anticipo l’incartamento di un processo collettivo in Francia e, si direbbe, in tutto l’occidente, a cui la svolta politica sessantottina aveva fornito una chance rivoluzionaria, infettata dalle perversioni di un’alta borghesia che fece da agente patogeno. In questo paesaggio assolato e dormiente, da mala ora malamente consumata, ha il suo impero orgiastico la semplicità del male: si comincia con una cruentissima rapina, magistralmente descritta da Manchette & co., per finire in qualcosa di peggio. L’analisi dei sintomi riporta automaticamente alla cognizione delle cause: un’eziologia che l’Italia faticò a riconoscere e che la spietatezza della scrittura ortogonale del maestro del noir rende appetibile alla lettura. Una strepitosa santa sangre, luminosa e corrosa dal sangue e dalla ruggine umana.