Sul nuovo numero di «Nuovi Argomenti», all’interno della sezione “Lezioni dal vero”, curata da Giancarlo Liviano D’Arcangelo e Raffaello Palumbo Mosca, un intervento in strana prosa dai territori dell’autofiction.
Riunificazione del molteplice
di Giuseppe Genna
Nel luglio 2015, in una prealba afosa milanese, sto ragionando sull’autofiction alla scrivania e muoio, avverto una fitta acuta e definitiva allo stomaco e mi piego morendo. Sembra di morire, che morirò. Soffro molto, la sofferenza è l’alba di una consapevolezza? L’umanità sembra avere scelto la sofferenza come via principale alla conoscenza, di sé e delle cosmicità. L’alba filtra e il dolore si estende nella schiena, pare pleurite, pare infarto, la spalla sinistra duole, devo distendermi e stare inerte sul pavimento colore ghiaccio, colore Kelvin, che nella casa solitaria ho. Il corpo cerca la postura per evitare il dominio monocratico del dolore assoluto che provo, e che provo ad alleviare angolando il torace o sollevando il braccio o facendo pressione sulle cosce, ripiegando le gambe e appoggiando contro le piastrelle gli stinchi, a comprimersi sotto il peso delle cosce e dei visceri e della testa, in una posizione fetale, armonica con la posizione finale.
Mentre il dolore reagisce alla misconoscenza del mondo e di me stesso, annullandomi, è il dolore stesso ad annullare il fatto che io sia Giuseppe Genna, maschio, quarantacinquenne, scrittore malandato, e l’autofiction non c’è più, l’orizzonte mentale (quasi che la mente fosse un paesaggio e bisognasse, prima o poi, sotto il giogo del dolore o nella pace del corpo integro che è calmo, chiedersi chi guardi il paesaggio che è la mente) è richiuso, io sono rattrappito, eppure c’è bisogno del mio nome, del mio genere sessuale di nascita, delle cifre e dei soligrammi del mio codice, fiscale e assistenziale, di tutta la Regione Lombardia, mentre la guardia medica constata il da farsi e mi chiede i dati, compilando il modulo.
Ho chiamato la guardia medica, faticando a sibilare nel cellulare arcaico, ha tre anni ed è arcaico, le app girano male. E’ arrivato dopo un’ora, insieme a un infermiere abbigliato da pompiere o da infermiere di notte sulle ambulanze degli USA. La guardia medica è un uomo che è oltre la mezza età, oltre la sfera che più larga gira, sembra pronto a un nirvana del tutto personale, consumato ai danni dei pazienti. La sua stazza, già di per sé colossale, soffre della complessione epatica che gli hanno comminato pranzi e cene, consumati ignorando le conseguenze metaboliche, è un massiccio pancreatico dalle mani a tenaglia, quelle mani che tipicamente si osservano in uomini di officina meccanica non privi di delicatezza e di una certa inermità. Il dolore acuto, continuo e a folate al contempo, mi costringe a concentrarmi sulle dita indice e medio della sua mano destra che tasta, callose e sporche per l’abitudine alle nicotine, e del resto emana un afrore di sudore ascellare e di nicotina anche il maglione pesante grigio, inadatto all’estate ma non forse all’ora presta, e i suoi capelli scarmigliati e le sue sopracciglia arruffate e gigantesche, non so se per la dilatazione della vista che il dolore mi impone o per qualche disordine tricologico, e il suo silenzio, osservato dall’infermiere vestito di arancione fluo in un silenzio ulteriore, che sta tra il servilismo e l’indifferenza, tutto questo complesso di misteri intorno al mio corpo, che inizia a sobbalzare per il dolore inaudito, giunge a compimento con un verdetto che non ha nulla a che spartire con una diagnosi, allarga sicula la prima vocale: “Spasmi”.
Stavo ragionando sull’autofiction soffro di spasmi. E’ luglio. Rispondi, luglio: dove è il fieno?, dove è il seme?, dove il germoglio?, dove il Rosseggiare?
Il sangue, con le sue usuali piastrine e il plasma e tutto, il nostro sugo di vita, sui cui stettero a ragionare i tolemaici e a simbolizzare i cretesi e tutte le umanità, il sangue mio rosseggia filiforme nella siringa, nel liquido Buscopan antispastico, la guardia medica mi lascia un’iniezione ulteriore in caso gli spasmi si acuissero e, sulla soglia, mentre striscio sul pavimento colore Kelvin e l’attendente colore Fukushima apre la porta a quel gigante Pallante, con il suo golf che sembra tessuto a mano in lana cotta da vedove arcigne e centenarie in una Marsica esodata, dimenticata, lana cotta imbevuta della saliva di arcigne centenarie, trame spezzate o annodate utilizzando l’unico incisivo superiore rimasto in sede, lana esposta a fritture nere e messa a fumigare la notte, appesa esposta ai fuochi nella prima campagna fuori dal borgo diroccato e abbandonato, sulla soglia dunque sentenzia, nel suo vago messinese: “Giuseppe Genna”. C’è una pausa, ma io avverto velocizzarsi il tempo, avverto indistinto il messinese, avverto allerta e nessun consiglio, non capisco, è un farfugliamento e va via.
Sono pieno di pietre. Al nosocomio centrale hanno costruito un nuovo pronto soccorso e ho trascorso le ore in una fitta senza requie, la flebo con l’antidolorifico ondeggia pesantemente, la sacca è sempre gonfia e si consuma goccia a goccia ed è un organo esterno del mio corpo in sofferenza. Disprezzato e reietto dagli internisti, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, io ero disprezzato e non avevamo alcuna stima del suo racconto. Gli altri pazienti in attesa mi guardavano in tralice, come uno trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità.
“E’ pieno di pietre” dice l’ecografo nella nuova ala per le ecografie. Poche ore prima, mi era passato davanti un morto. Dal lenzuolo, tipicamente grezzo e pesante e troppo inamidato della pubblica sanità, verso il limite della barella ho notato l’alluce bluastro, caratterizzato da venature nere e il lenzuolo si è sollevato, le porte delle astanterie si sono chiuse insieme e il contraccolpo dell’aria ha sollevato il lenzuolo, che sembrava una fiandra lieve e finzionale, un aggetto ghiacciato in parete e l’uomo era sporco di melena, morto.
Sono pietre nella cistifellea, calcoli biliari, cristallini, un centinaio. La colica si cheta, che da ore mi costringe a non pensare ad altro se non il dolore e, nel dolore, il livore verso gli altri umani, verso la professione medica, le giornate d’eccezione e le feste esclusive in cui le spose ballano pezzi anni Ottanta a piedi nudi, sorridendo troppo, i famigliari più attempati o addirittura anziani se ne stanno in disparte, silenziosi e confusamente sorridenti, con le loro barbe adamitiche e le carni lessate dall’eccesso di tempo che macera chiunque, dall’istante in cui egli diviene il più giovane dei vecchi e il più vecchio dei giovani, la fitta si cheta e nel dolore aggredivo con la mente le fortune solide altrui e le stolidità mie personali, la pavidità, la generosità utilizzata come arma di difesa infida e pricipio di camouflage, la lingua degli esordi e gli esordi in genere, l’autocompatimento e l’autocompiacimento per il medesimo, in questa pressione del dolore che annichilisce la mente concentrandola in un unico punto, non luminoso, cupo e profondo, gli spilli del dolore negli occhi e nelle regioni cerebrali mi hanno reso esausto e adesso penso al nome, “Giuseppe Genna”, come si legge sul braccialetto, dove è segnata una croce rossa, che significa allergia, poiché, dopo la decisione di ricoverarmi per levarmi dai visceri le cento pietre, mi hanno somministrato un antibiotico: il dolore era calato, ora la mano destra mi si faceva sentire pulsando come un pallone in cuoio per il rugby e la lingua, secca, salmastra, come un principio di anaconda che nasce e cresce nell’uovo della mia bocca, le palpebre non riescono a disserrarsi e pesano come pelli di montoni che isolano dall’elettricità, le labbra si tumefanno e la fronte si corruga in una cute spessa pachidermica, tutto il corpo è gonfio e prude, immensamente, il cuoio capelluto prude, è irrefrenabile, il prurito è un’alternativa al dolore o una sua declinazione più gentile? Non è stato scelto dall’umanità, il prurito, quale via principale per conoscere la verità delle cose e di se stessi…
Allergico all’antibiotico, il corpo è stato sedato da un bolo di cortisone, le cui virtù risiedono negli effetti collaterali, che inducono alla dismissione delle sigarette e al digiuno dai latticini.
Alla seconda settimana di ricovero, nell’attesa che si sfiammino le interiora e possano estrarre le cento pietre dai visceri, dimagrito di tredici chilogrammi, sempre attaccato alla fleboclisi che goccia, i cateteri che trasmettono onde cupe di dolore venoso, la mano sinistra che sposta l’asta mobile, nelle vaste corsie del reparto io sono uno stilita, c’è qualcosa di veterotestamentario in me: la mia voce rischia di tuonare verso le docce obitoriali. La chirurgia toracica è reale, è un sogno che gli umani hanno secreto nei secoli, subentrare nel falso pieno che siamo, tra organo e organo, essere cerusici, separare il fegato dai tratti intestinali, distaccare in laparoscopia la cistifellea inservibile, costipata di cristalli biliari, pietre verdi che danno colica e servono gli antiemetici.
Il policlinico è in ristrutturazione, per gli appalti, viziati dall’intervento delle mafie, il riattamento è fermo da tre anni. Cittadella dei viventi e dei semiviventi, il nosocomio misura un’area vasta molte piscine. Nei giorni, trascinando l’asta della flebo, mi sono aggirato per quei padiglioni resi scheletro di ferro arrugginito, rovine crepuscolari di muratoria ottocentesca, collinari di macerie edili, per l’estensione di campi da calcio. Tra i laterizi strisciano bisciole e si incuneano nutrie. E’ dove sorgerà una nuova città della salute, dicono, più conquistati dall’idea della città che dalla salute, condizione la cui carica elettrica non si interrompe e permette l’abolizione temporanea della la gioia di sentirsi tristi. Una sospensione illimitata e vacua coglie infatti chi non interpreta il ruolo dell’uomo sano o salutare. Tra le pareti delle camerate primonovecento si spera nella bolla del sonno, per sospendere i pensamenti epatici e spegnere le flogosi con cui i pazienti alimentano la propria mente, perennemente distratta o ricorsiva sull’immagine del ricordo più inatteso, come un mantra figurale, non sonoro, le loro flogosi incitano all’odio per gli operatori nosocomiali, all’invidia per la condizione transeunte in cui versano gli animali selvatici, inconsapevoli dell’ineradicabilità del tumore, i loro zoccoli selvaggi ben piantati nella terra della savana, rossa di ematite, i loro pellami, i loro afrori, la rapidità e la libertà conculcate in essi da una natura benigna, poiché priva di previsionali e di valutazioni degli indici ematici: tutti i pazienti odiano gli animali selvatici!
Le corsie sono miste, le stanze vengono composte con tre pazienti del medesimo sesso.
Accanto al mio letto non smette di guardare Rete4, trasmissioni rutilanti contro gli immigrati, un uomo che ha le pietre biliari ed era stato trapiantato al midollo e quando parla tremo: “Le iniezioni di staminali: non ne hai idea! Vorresti urlare per sempre, avere solo fiato per urlare! Non è possibile immaginare quanto bruciano, entro un quarto d’ora, come se ti incendiassi direttamente le vene o bevessi acido fòrmico e l’esofago sobbolisse e si piagasse per sempre, ora il bacino mi si spezza. Giocavo a biliardo, da professionista, devo adesso appoggiarmi a un esoscheletro per piegarmi sul tavolo, sembra che la spina dorsale si spezzi, si sfrangia, lo sento, è esfoliata, piccoli fiocchi di calcio d’ossa. Quelle iniezioni staminali!…, nella stanza isolata sterile, mia moglie dietro quel vetro di plastica, con la mascherina, che mi saluta intimidita e quasi priva di speranza e vita, non è una vita!, e stare a dormire è sentirsi incendiare, come l’acido fosforico, non smette più di incendiare, dormi e ti incendi. Non mangi più, forse una michetta, dopo settimane. Me li mangio, io, quelli che fanno il trattamento radioattivo alle tiroidi!” e accenna un sorriso, poi torna a studiare il programma contro i negri, con la voce toscana del presentatore che ce l’ha con i negri, nello schermo appaiono abitanti appalachiani della valle Seriana, che in bergamasco dicono no ai negri, vogliono abolire i negri.
Si tenta un sonno non incendiario, per sfuggire a se stessi e al proprio nome. Nulla, del racconto, vale, se non un incremento di intensità, una verità rinnovata, risanata, immaginando che tutto sia successo davvero, che le parole descrivano accadimenti e non le solite fumesticherie, poiché non sono più in grado, gli umani, di ritenere reali o realistici i cieli, i racconti, i mondi immaginari. Inventano sempre di meno, sempre di altro. Il nome era legione, divenne ragione, non ci fu più nome. Scrivo in direzione di ciò che è senza nome.
Quando punto la nuca verso il muro a nord, dall’altra parte della parete esplodono boati, flatulenze miste a bestemmie, allora vado a controllare, trascinandomi dietro l’asta della fleboclisi, ed è sempre la donna-orchite: il ventre pare una sacca testicolare, orchitica, non si muove dal letto, ha quarantacinque anni, una figlia, la figlia viene violentata dal patrigno, poiché il padre naturale se ne andò quando era una bambina, la donna-orchite ha chiamato una volta i carabinieri ma se ne è vergognata, si è vergognata della pedofilia, lo racconta a tutti, urla, i suoi capelli di saggina unti vengono aspersi con uno shampoo secco più volte al giorno e la donna-orchite è cironfusa di un sentore di lacca e di papaya, il suo volto gonfio esalta la postura vorace della bocca, sempre semiaperta quasi volesse addentare te o una porzione del mondo, lo sguardo scansiona la stanza e urla disposizioni affinché gli oggetti non siano mutati di posizione, c’è una paziente più giovane che la pettina come se fosse una bambola ciclopica di carne, non si solleva mai, le lenzuola sono imbigite, urla, racconta dei diverticoli, cola una sostanza brunita e oleosa dal drenaggio che le si intrude in quella sacca testicolare che è il ventre, fa teleconferenze con sua madre e sua nonna e parla degli stupri della bambina, la bambina ha diciotto anni, si lamenta, insulta i medici via teleconferenza, ne pronuncia i cognomi come fossero parentali, non sa cosa attendersi, i diverticoli non sa quando passano, la attende un filo spinato, le vespe dentro il drenaggio, la vipera della sonda ecografica, il nichel bianco e lucente che non si ossida all’aria, la sua bocca a ventosa si sfilaccia morendo in vita e urla, ogni mattino, alle cinque, urla le bestemmie, chiunque la odia, così come odia il nuovo sole luglieno e pallido sulle macerie interne del policlinico, odia i caffè consumati dai sani e i caffè liofilizzati delle macchinette, a cui ambiscono i pazienti, e il regime odiano, ospedaliero, l’ombelicalità, le ore trascorse a controllare le news e il meteo.
Scendo spesso a fumare. Entrano morti. La chirurgia toracica è il luogo dove è eseguito il complicato trapianto. Entrano morti a pezzi, fegato, cuore, etc. Io fumo, la notte, le ambulanze sembrano natare in un liquido viscoso e notturno. L’anzianità è in un certo modo una malattia.
Cosa siamo diventati? Cosa abbiamo sperato di essere? Non era tutto straccio quanto abbiamo inteso di vedere? Stracci di carne, stracci di nubi, di acqua, di sostanze vegetative, di cose, di noi stessi all’opera, stracci a sollevare stracci, pensieri a forma di stracci, stracci d’anima, di animalità…
Il corpo è un buco, fatto di buchi. Il drenaggio, che mi sfrega sulla capsula epatica con immenso dolore e un risucchio continuo, emette gocce di olio denso di cui sono fatto. I lavandini, nei bagni ospedalieri, sono dotati di filtro per l’acqua, al fine di impedire le fuoriuscite dai rubinetti di blatte rossobrune, magre e veloci, che sembrano inestirpabili, hanno provato tre volte la disinfestazione e le blatte prosperavano, fuoriuscivano, rampicavano le pareti male smaltate del lavandino, cercavano i letti, si nutrivano dell’amido delle lenzuola.
Il cappellano del nosocomio, Padre Giuseppe, è alto e magro e porta la buona novella ai diseredati del dolore. La sua barba libanese colpisce i pazienti, che si raccomandano a lui e alle sue preghiere. Sono l’unico ricoverato che legge libri nel reparto, mi si siede accanto, sulla panca in fòrmica e ammonisce: “La lettura è fuorviante, perché distrae dal dolore. Le estasi del lettore hanno pochi giorni di vita, ancora: sarà una liberazione. Questi aggeggi non sono inerti, i libri. Né viventi né morti, né elettrificati né inerti, hanno preteso di sostituirsi alla memoria, esternalizzandola. Così come è esistito il figlio dell’uomo, allo stesso modo non è esistito il figlio del libro. Possiamo osservare le rovine, leggendovi il futuro o il passato o lo stesso nostro presente: i libri facevano scordare il mondo! Creavano un duplicato dell’uomo, l’uomo del sapere, l’uomo inautentico che si appoggia alle parole. Le immagini sono cristiche, le pagine di un libro sono scimmia del mondo”.
“Non è detto, Padre Giuseppe, – rispondo –, presumiamo che l’immagine detenga una traccia fedele del corpo a cui corrisponde e questo manifesta l’eresia per lei più neghittosa e assassina, poiché vi soggiace l’implicita verità che anzitutto i corpi sono veri. Giocare con i nomi comunica certamente un’euforia eccessiva, si fa presto a sentirsi demiurghi; ma la verità non sta nelle parole e nemmeno nelle immagini, come dimostra il fatto che, a sfuggire sempre, sono io: tal dei tali, di tot anni, con un quot di patrimonio e una tantum di esperienza memorabile, ovvero raccontabile. Dispregio la memoria. Mi interessa dimenticarmi di me stesso, in vista di ulteriori trasalimenti, più naturali e vuoti, la natura che io stesso sono e ancora non so”.
La presenza delle cimici e delle zecche nella zona sale operatorie induce al trasferimento dei letti, rischiosamente anche quelli dei trapiantati, con grave pericolo per la loro stessa incolumità. Gli infermieri e gli ausiliari tacciono la verità che il reparto è infestato. Io taccio la verità.