Amorosa presenza a Milano


Torno dalla colazione, dove i soldi che paghiamo tutti noi per Alitalia si intrecciano al sesto scudetto della Juventus nel chiacchiericcio degli avventori al bar Willy, era rimasta soltanto la brioche vegana all’albicocca, stracotta nel microonde per uscire dalla surgelazione e uno parlava anche di Trump, diceva che è comunque meglio di Salvini e la marcia per i migranti a Milano non andava bene, però Sala è meglio di quanto si pensasse e va bene così, mentre nessuno sembrava interessato al Salone del Libro di Torino. Rientro a casa, la testa è un crogiolo di avvilimenti e fantasie, di entusiasmi che dureranno qualche ora e di sentimenti di impotenza cupa, è un periodo terribile per me, mi trascino con la forza di volontà, in uno spasmo perenne, in un’eccezione della mia esistenza, che mi lascia schiantato. Vivo foderato nei miei problemi, devo acuire la vista e i sentimenti per raggiungere lo stato senziente usuale, poiché anzitutto viene la preoccupazione, l’avvertimento di abbandono da parte della realtà, l’angoscia per il ciclo produttivo. A venti metri dal mio portone, nella piccola via in cui dimoro come un ossesso, ad altezza supermercatino gestito da una volonterosa signora proveniente da Manila, accanto alle radici tuberose di zenzero o che altro, un’anziana, quasi ottantenne, mi ferma con una cortesia che non ha più patria nella compagine umana della metropoli in cui sverno e passo le difficoltose estati: la sua capigliatura linda è azzurrata, glauco l’occhio, la pelle del volto magnificamente corrugata dall’età, la camicetta inamidata profuma di lavanda nell’odoroso esplodere del glicine che sta inumidendo l’aria tutt’attorno, prima della crepatura e della proliferazione colloidale e mielosa della sua putrefazione dolciastra, che a giugno inoltrato a Milano fa ricordare il corpo dei morti. L’anziana signora sorride senza rictus, è una fisionomia di una bellezza che sorprende e abbacina, la sua solarità ricorda scampoli dei Settanta, quando gli umani metropolitani erano così, in un certo senso rigorosi e flessuosi, luminosi e attaccabili: li si è violentati, si sono violentati a vicenda. Mi apostrofa: “Gentile giovane, posso farLe una domanda?”, irradiando un bene ineffabile. Annuisco e mi sporgo verso di lei, verso questa inermità che si offre di chiedere, che emerge da tragedie lontane o prossime, con la dignità che abolisce Lombroso e introduce all’etere, che è ovunque e tutto vede, senza giudicare. “Posso chiederLe un piccolo aiuto economico? Se lo desidera, ho qui un acquisto da proporre: sono piccole matite per i bambini, che realizzo io in proprio”. Mi trovo a scegliere se fare la carità o evitarne l’offesa, acquistando le matite, affinché l’anziana signora non avverta l’umiliazione. Da dove proviene questa donna? Da quali scrigni abissali di dolore, da quale disposizione e resistenza all’umiliazione? Come vive la sua giornata? Nello spasmo della necessità economica e della frustrazione. E, se si ammala, chi si occupa di lei? Ha figli che la hanno abbandonata? La sua immensa azzurrità è capace di fendere le tenebre di questo dolore materiale? L’economia non la sostiene e l’affossa, come un’idra, che ha tante teste inferocite quanti sono i giorni della sua vita improtetta… Estraggo le banconote e gliele consegno. Il labbro inavvertitamente si muove per un microscopico tremito e gli occhi sembrano inumidirsi, come quelli di certe madame inglesi di nobile stirpe, sulle quali è azzardata qualunque lettura emotiva. Mi ringrazia, va via. Si allontana, era Beatrice sotto altra forma, era la storia e l’occasione, era la spinta e l’educazione, la terapia e l’amorosa dazione di chi sa chiedere e dunque impone la domanda, questa grazia che i contemporanei tendono a ignorare o a rimuovere. A forma di punto di domanda, sprofondato nella grave meditazione, proseguo verso il portone, ricco di una lezione che perturba i miei dolori, dissolvendoli per qualche attimo, io, reso attento dall’amorosa presenza, dalla pedagogia che mi propina santamente la realtà, la persona in carne e ossa e anima, quello sguardo azzurro che mi dice quanto meschine e afissianti sono le pareti dell’io e proseguo verso la scrittura inutile, inutilizzata, nell’incantamento…

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