Il secondo episodio del nuovo “Twin Peaks”

Secondo episodio del nuovo corso di “Twin Peaks” (qui il post sul primo): David Lynch si rompe i coglioni e manda a quel paese la supposta leggibilità, la facilitazione dello spettatore (si legga anche: del lettore) e dimostra come si possa fare arte altissima e avanzata, senza stare ai protocolli di quel beghinaggio assoluto a cui costringono i produttori o gli editori. Vince Lynch su tutta la linea. Esplode la Stanza Rossa, in cui ha luogo il tempo altro e dove appare Laura Palmer invecchiata di un quarto di secolo, morta ma anche vivente, mentre l’agente Cooper è di colpo un pellerossa spietato e braccato: chi se ne frega della località Twin Peaks? Il passato riemerge per conati, è tutto stentoreo e calcolato verso l’incalcolabile: c’è un rapido stacco sulla madre di Laura Palmer, avvizzitissima, che fuma voracemente le sue sigarette stando compressa sul divano, in orgasmo da suspence davanti a un televisore su cui scorre un’opera alla Bob Wilson, ovvero sequenze di felini feroci in una luce ricreata, naturale e innaturale, senza sfondo musicale o parlato. Come qualcuno notava ieri nei commenti a un post dedicato al primo episodio della nuova serie, siamo al trionfo dell’eccedenza percettiva, al trascendimento del sistema nervoso. Il quale sistema nervoso è emblematizzato da un albero dendritico, che sembra un neurone, secco e illuminato da attività elettrica come se fosse in preda di sinapsi, in cima al quale pulsa un organo interno che ricorda un cuore selvaggio e deforme, e viene presentato e si presenta così: “Io sono il braccio”. La coerenza narrativa c’è e probabilmente viene sviluppata in seguito, ma intanto Lynch ha aperto le cateratte del Bardo (l’interspazio tibetano dei vivi e dei morti). Si fluttua, si è accecati da una torcia sparata in soggettiva, nel buio minimamente rotto da pochissima luce concentrata sulle frasche di una selva oscura. Personaggi rétro appaiono in stato finale, chemioterapici e dunque privi di capelli, con le cannule dell’ossigeno nelle narici e un ceppo sapienziale sotto il braccio, in una luce e in uno spettro coloristico che si mangiano l’estetica delle stagioni degli anni Novanta. Questo è un grande artista: Lynch lo è, si permette di trascendere il cinema e fare vergognare il Matthew Barney di “Cremaster”, andando mainstream con l’arte più accessibile e più inaccessibile. Però, a mio parere, Lynch non è mai stato così artista come in questo secondo episodio di “Twin Peaks”, che, a questo punto, diventa il *vero* e autentico “Twin Peaks: il passato è trapassato, il futuro è un nunc stans di qualità non semplicemente onirica e comunque elevatissima.

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