Philip Roth, il tragico

[Philip Roth è morto il 22 maggio scorso. Pubblico qui parte di un saggio che ho dedicato alla letteratura di Roth nei suoi rapporti con la potenza del tragico. Questo brano è tratto dal mio libro “Io sono. Studi, pratiche e terapia della coscienza”, edito da il Saggiatore]

Nella prefazione all’edizione 2007 di Blaze, Stephen King avanza un argomento di critica del gusto sconcertante: accenna a Everyman di Philip Roth [1]. Lo fa con toni esasperati e comici, accomunando il romanzo di Roth, negli effetti che produce sul medesimo King, a Jude l’oscuro di Thomas Hardy. Leggendo questi romanzi, King dice di avere alzato le braccia, esasperato, di avere chiesto al cielo che l’autore infilasse di più: un cancro ulteriore, una fulmine che scende dal cielo e incarbonisce il protagonista che soffre solamente sfortune e, cosa fondamentale per King, piagnucola sul proprio dolore. Non va sottovalutata la capacità critica di cui King dispone: il suo On writing [2] rimane per molti scrittori contemporanei di tutto il mondo un punto di riferimento, che la critica stenta a tutt’oggi a includere nel suo comparto di elezione, soprattutto per un passaggio fondamentale in cui l’autore avvicina alla telepatia la mobilitazione di fantàsmata che è implicita nella scrittura di storie, siano esse epica tradizionalmente intesa o romanzo moderno e contemporaneo nei suoi più vari generi.

L’osservazione comica e stremata di King su Everyman mette in luce almeno due elementi che mi interessano per il discorso che qui voglio fare. Intendo infatti entrare (non delimitare né configurare né esaurire) una nebulosa che è trattata praticamente da sempre da discipline le più varie, come la filosofia l’estetica la teoria letteraria e la letteratura stessa: cioè il tragico e la tragedia. In tale nebulosa vorrei rilevare la presenza atmosferica di un genere moderno, cioè il romanzo, al fine di osservarne eventuali relazioni con elementi della nebulosa stessa o, più precisamente, l’eventuale possibilità che il romanzo possa farsi incarnazione letteraria del tragico, così come la tragedia fu incarnazione, non soltanto letteraria, del tragico classico. I due elementi interessanti, nell’analisi en passant di Stephen King, sono:

 

  • Stephen King non compie un parallelo tra Everyman firmato Roth e il bennoto dramma chiesastico medievale Everyman. Non c’è continuità, per King, tra i due testi. Ciò che avviene nei due testi è di natura differente e il prefatore di Blaze esplicita tale differenza – che è il secondo elemento interessante;
  • Everyman è, per un romanziere come King, un libro in cui il pianto piange se stesso, in cui l’autore piagnucola e fa piagnucolare il suo protagonista. Il protagonista è sottoposto a manrovesci della sorte e la sua meditazione su questi manrovesci medita piagnucolando.

 

Nemmeno io intendo compiere un parallelo con il “morality play” Everyman del 1485. Non intendeva stabilire un parallelo, a sentire Roth stesso, nemmeno l’autore americano, che a sua detta avrebbe deciso il titolo del libro a metà della composizione [3]. Il fatto centrale nel mio metodo di approccio, ammesso che si possa parlare di metodo se non in senso etimologico (cioè di attraversamento), è proprio quello di ignorare o constatare, senza alcun rilievo per me significativo, le intenzioni dell’autore rispetto al testo in esame. Per dirla molto sbrigativamente: o pratico una lettura sintomale dell’opera di Roth, oppure Everyman non mi interessa. Non mi interessa perché la mia sensazione primaria è la conclusione di questo lavoro e coincide con le impressioni di Stephen King. Intendo che Everyman è un testo che rispecchia uno stato sociale dell’occidente avanzato, una sorta di teorema messo in prosa, in cui il nichilismo dell’autore si sporge in maniera per me inopportuna, ma assai sintomatica, nel farsi della scrittura. I personaggi esprimono una psicologia che tenta vanamente di universalizzare gli stilemi psichici del nostro presente. La possibilità di estinzione dell’umano è di per sé, e troppo semplicisticamente, una tragedia, quando invece è semplicemente un atto improcrastinabile della natura. Sarebbe come dire che i cavalli, le stelle, i Faraglioni sono una tragedia o la vivono, poiché finiranno. Il confronto con il limite dell’umano non è dialettizzato: è espulso dall’affrontamento, è subìto, e questo innalza un’ondata emotiva che si aggrappa alla memoria quale unica salvatrice, quale perpetuatrice attraverso la scrittura – una clamorosa diminutio della complessità letteraria. Le variazioni ironiche, ciniche, sardoniche, che Roth applica al suo personaggio senza nome, sono un’ironia che possiamo spiegare assai banalmente, ripiegando su Freud: si tratta di una difesa psichica, non certo dell’ironia tragica innescata dall’amartìa, cioè uno dei componenti più ambigui e determinanti del protocollo tragico. L’idea che questa parabola, che può essere tale solo a partire da un individuo che vive in questo modo elementare l’avvento della morte e l’attraversamento della malattia, possa essere universalizzata, attraverso il titolo e l’espediente del protagonista privo di nome, il che alluderebbe al fatto che chiunque sente in modo tanto banale un’abissale questione che mette in discussione i rapporti tra l’umano tutto e l’oltreumano (cioè: il mondo privo dell’umano, la scomparsa dell’umano, l’essere in assenza dell’umano), è un vizio ricorrente in certa letteratura contemporanea. Più precisamente: in certo romanzo americano. Ne Le Benevole di Jonathan Littell, il protagonista Max Aue, un appartenente alle SS che si distinguerà nell’opera di sterminio indecente degli Einsatzgruppen e nei campi di concentramento, inizia appellando il lettore, con un citazione letterale da Lascito e testamento di François Villon: “Fratelli umani”. Il lettore non ha scelta: è un fratello di un nazista e potenzialmente è un nazista, senza possibilità di revoca. Per costringere il lettore ad accettare l’universalità, si ricorre in entrambi i casi, sia in Everyman sia in Le Benevole, a un testo medievale che era sì universalizzante, poiché agiva in un orizzonte di significati ed effetti che prevedeva un cosmo di riferimento e questo cosmo di riferimento aveva comunque a che fare con elementi che né Roth né Littell possono richiamare: la trascendenza, il destino per cui l’uomo è transeunte, un’allegoria implicita in ciò che, da metafisico, sta in quel momento storico trasformandosi in spirituale nel senso confessionale e ideologico del termine. Non è nemmeno una coincidenza che Roth si richiami a Everyman 1485 e Littell alle Eumenidi, cioè le Erinni, che sono “le Benevole” del titolo e una tragedia eschilea.

Questo richiamo, impotente nei suoi effetti, al dramma antico o alla tragedia arcaica, mette in luce che i rapporti col tragico, nel romanzo moderno e contemporaneo, hanno accusato uno slittamento. Quale? Di quale tragico stiamo parlando?

  1. a) Everyman

Nel suo saggio sulle Baccanti, Ian Kott [24] osserva come “al culmine della tragedia, quando il messaggero racconta del corpo dilaniato di Penteo, la danza diventa spasmo”: è il momento in cui “il coro delle Baccanti, come in un rito iniziatico, scopre il tremendum” e cioè, secondo il richiamo che Kott effettua dall’Eliade di Mythes, rêves et mystères [25], “la rivelazione quasi simultanea del sacro, della morte e della sessualità”.

Non è ciò che accade in Everyman. Nel romanzo di Roth la rivelazione è negata, semplicemente perché non c’è alcun sacro da rivelare, la sessualità è data per già svelata e addirittura irrecuperabile nel momento in cui si annuncia l’apparire palese della morte, attraverso una lunga malattia e l’osservazione della patologia devastante in chiunque accompagni la vicenda, finale e mnemonica, dell’uomo privo di nome che fa da protagonista.

E’ invece ciò che accade in Everyman 1485, se Ian Kott annota questo passaggio fondamentale: “Nel medioevo le tragedie di Euripide dovevano essere interpretate come misteri e miracoli, dal momento che un poeta latino del XII secolo utilizzò un frammento delle Baccanti per descrivere il seppellimento del Cristo. Il testo delle Baccanti ci è giunto in un manoscritto mutilo ed è solo grazie all’anonimo poema Christus patiens che possiamo colmare una lacuna nell’epilogo della tragedia”. Tale frammento è abbastanza significativo rispetto allo svuotamento che Everyman di Roth compie rispetto all’Everyman 1485: “Vieni, vecchio, lasciaci mettere nel modo giusto la testa dell’uomo tre volte sventurato e ricostruire l’intero corpo il più armoniosamente possibile. O viso carissimo, o giovani guance, guarda, con questa coperta ti nascondo il capo e gli arti segnati e sanguinanti”.

Nulla di ciò in Roth. Everyman è strutturato per tre quadri, che in realtà sono poi quattro: c’è la sepoltura del cadavere dell’uomo senza nome, il funerale agghiacciante; c’è un vuoto silenzioso che separa; c’è il racconto che riprende le memorie della fase terminale dell’esistenza del protagonista (il quarto quadro corrisponde, nella prospettiva di questo intervento, al taglio netto del finale e all’introduzione del bianco finale – di nuovo un silenzio, non propriamente della medesima natura di quello posto all’interno del testo).

Questa pietà dell’altro nei confronti del morto, così evidente nelle Baccanti e nel suo erede Christus patiens, è in Roth decisamente negata. Anzi, è rovesciata. I figli maschi, i figli del primo matrimonio del protagonista di Everyman letteralmente e molto banalmente lo odiano, come in un Edipo dilatato e privo assolutamente di elaborazione, e il loro astio emerge nel gesto finale, che è un contraddittorio alla pietà tragica euripidea: “Il più giovane, Lonny, fu il primo ad avvicinarsi alla fossa. Ma appena ebbe raccolto una zolla di terra cominciò a tremare in tutto il corpo [corsivo mio, ndr], e diede l’impressione di essere lì lì per rigettare. Era stato preso da un sentimento per suo padre che non era antagonismo, ma che il suo antagonismo gli impediva di sfogare. Quando aprì la bocca, non ne uscì che una serie di rantoli grotteschi, facendo sembrare probabile che la cosa che lo possedeva, qualunque cosa fosse, non lo avrebbe mai lasciato [corsivo mio, ndr]. Era messo così male che Randy, il figlio maggiore e più determinato, il figlio che faceva le ramanzine, venne immediatamente in suo soccorso. Tolse la zolla di terra dalla mano del più giovane e la gettò sul feretro per tutt’e due. E quando si accinse a parlare, trovò in un attimo la vena giusta. – Dormi bene, papà – disse Randy, ma la sua voce era terribilmente priva di ogni nota di tenerezza, dolore, affetto o smarrimento [corsivo mio, ndr]”.

Appare, dunque, il contrario del telos tragico. Anzitutto perché il telos tragico sta alla fine, mentre qui la fine sta all’inizio. Poi c’è l’inversione tra vivi e morti: laddove nelle Baccanti è un vecchio a seppellire un giovane che è stato smembrato, qui sono due giovani a pezzi che seppelliscono un vecchio pieno di pace-maker. Infine c’è la pietà: nelle Baccanti è intensa ed è essa che fa del cadavere il protagonista del telos, in Everyman non c’è nulla di tenero né di empatico, e i protagonisti non sono il morto, ma i viventi che seppelliscono.

Ora, tutto ciò è vero, ma a una lettura che vìola con forza il testo, alla ricerca di elementi qualificanti e però non arbitrari, è anche falso. Anzitutto il fratello minore: è letteralmente preso da uno spasmo, proprio come il coro delle Baccanti alla scoperta del cadavere. E’ chiaro che si trova davanti a qualcosa di tremendo e, anche se Roth si impegna a darne una spiegazione psicologica (“Era stato preso da un sentimento per suo padre che non era antagonismo, ma che il suo antagonismo gli impediva di sfogare”), il che dovrebbe garantire l’assenza di tragico dionisiaco, cioè di orizzonte trascendente, tuttavia a Roth stesso sfugge un’espressione che più dionisiaca e tragica non si potrebbe reperire. Lonny è infatti preso da uno stato che abbiamo bene in mente, ormai: “la cosa che lo possedeva, qualunque cosa fosse, non lo avrebbe mai lasciato”. Un invasamento inqualificato. Una potenza estranea letteralmente occupa e prende possesso del figlio del non tanto caro estinto. Infine, ex converso, quanta pietà ed empatia deve conoscere chi scrive che “la sua voce era terribilmente priva di ogni nota di tenerezza, dolore, affetto o smarrimento”? Se davvero a priori fosse assente la percezione della pietà, sarebbe impossibile descrivere tanto assolutisticamente la mancanza di empatia.

Ciò non significa che un tragico di ordine dionisiaco (nell’accezione fin qui investigata) si manifesti in Everyman, o, peggio, che elementi rilevabili di quest’ordine facciano di Everyman un romanzo tragico. Tutt’altro. Qui si sta tentando di osservare se il testo offre supporti di tracce di un tragico di cui l’autore non è affatto consapevole o, se ne è consapevole, non ne approva minimamente il portato. Abbiamo già osservato le abissali distanze tra Everyman e il tragico arcaico. Ora si ricercano le prossimanze eventualmente rimosse.

E’ lo stesso Kott che viene utile per ribadire, in una sintesi fulminante, la distanza ma anche l’opportunità di una simile quest: “La morte e la resurrezione del dio sono nelle Baccanti un segno simbolico, mentre sono reali lo strazio e la morte dell’uomo”. Detto che Everyman di Roth è la storia dello strazio e della morte di un uomo considerati come reali, il giudizio di Kott il contemporaneo, che inverte il simbolico con il reale, dà adito a ravvedere se sussitono nel romanzo rothiano alcune tracce del simbolico. Si tratta di un preciso simbolico che qui si cerca: è anzitutto lo sparagmòs. Giungo alla conclusione che lo sparagmòs governa, nella più totale cecità autoriale, l’intero racconto mnestico sul protagonista senza nome di Everyman. C’è infatti da considerare (evitando l’onda anomala che un simile argomento porterebbe dietro a sé, visto che su quanto sto per affermare si sono sprecati fiumi d’inchiostro e di pixel, e sono fiumi che in parte affluiscono reciprocamente, mentre in parte fanno cozzare le proprie correnti l’uno contro l’altro), c’è da domandarsi chi sia il narratore dei ricordi del protagonista di Everyman. Si tratta di uno sguardo disincarnato che è stato variamente denominato, e che porta tutte le tracce di una solida funzione narratologica, definita “narratore onnipotente”. E’ uno sguardo disincarnato, onnipresente, che entra nella testa del personaggio e ne esce quando vuole, capace di descrivere dall’interno e dall’esterno. Gioca con la finzione come se ne fosse il dio. E’ uno spostamento piuttosto decisivo all’interno dell’opera rothiana. Solitamente Roth utilizza, tranne in un caso, un alter ego per narrare (Zuckerman è il più celebre), o direttamente e più tradizionalmente un personaggio configurato “a sagoma psichica”. Va detto che l’intento di Roth è quasi sempre speso all’insegna di esercitare un’ironia difensiva, un cinico sarcasmo, nell’avverarsi di qualcosa che è tragico per contrasto. Avviene questo movimento per il personaggio dello Svedese in Pastorale americana, così come avviene soprattutto ne La macchia umana ai personaggi di Coleman e dell’ex veterano del Vietnam in piena sindrome da stress post-traumatico. Tutto Il teatro di Sabbath, a partire dal titolo, evidenzia che siamo sempre su una scena e che esiste uno sguardo capace di vedere lo spettacolo: che è sempre tragico e comico, ma nel senso in cui per un contemporaneo il tragico è “narcisistico trascendentale” e il comico esprime un’ironia aggressiva, che la retorica psichica ci avverte essere una difesa, un allontanamento dal dolore, una presa di distacco – in pratica, il verbo postmoderno, che fa dello scetticismo e dell’allontanamento la barricata definitiva contro la tragedia. Barricata che, tuttavia, manifesta crepe.

Consideriamo, per esempio il seguente passo di Everyman:

“Spiegò a Nancy, quando gli chiese del suo lavoro, di avere subìto ‘un’irreversibile vasectomia estetica’.

– Qualcosa ti rimetterà in pista, – disse lei, accettando quel linguaggio iperbolico con una risata assolutoria”.

Possiamo passare oltre senza guardare in profondità, ma l’incredibile serie di operazioni cardiache che subìsce il protagonista dovrebbe sollevare perlomeno qualche sospetto. Siamo dotati della conoscenza delle cause, e quindi di un’eziologia precisa, che include il riconoscimento dei sintomi. Il linguaggio che la figlia del protagonista percepisce come “iperbolico”, non lo è affatto: è reale. Però è apparente, se Nancy lo giustifica come illusorio – un’illusione che ha certamente una considerazione psicologica a motivarla. E tuttavia ci troviamo di fronte a un’apparenza illusoria che è reale. Si dà il caso che questo sia precisamente un pattern minimo di sparagmòs. Il termine “vasectomia”, come molto gergo medico, mantiene evidente la sua radice etimologica, che è di origine grecoantica, e per questo assume una funzione esotica e drammatica al tempo stesso. Qui è convocato il verbo tèmno, che significa tagliare, e viene impiegato a proposito del corpo. Non basta: il taglio cardiaco è “irreversibile”. E’ questo che fa scattare la percezione dell’“iperbolico”. Tale percezione è difensiva: la figlia ride e assolve. Poiché nell’irreversibilità del taglio del corpo si presenta un fantasma di morte, ma non di morte inqualificata: è precisamente un inizio di sparagmòs.

Si compie in Everyman un processo del tutto peculiare: l’uomo è fatto letteralmente a pezzi, mediante la modalità contemporanea che la tecnologia ci offre: si tratta di una modalità invasiva. E’ l’infinita teoria, che strema, di introduzione nel corpo di pillole antidolorofiche e sostanze chemioterapiche, di pace-maker e divaricatori cardiaci, di cateteri e by-pass e defibrillatori. L’effetto è comunque quello di vedere il proprio corpo che va a pezzi. E’ questa la tremenda malattia che il Chiunque di Roth lamenta in maniera quasi irritante: “La vecchiaia è un massacro”.

Tanto più ciò accade, quanto più si alza la resistenza offerta da una memoria che non è la Mnemosine madre della Musa letteraria: è proprio il contrario dell’anàmnesis che predispone, nella tragedia tragica, al distacco dall’identità. E’ come se, in presenza del fantasma del tragico dionisiaco, si alzasse in Everyman l’intensità di un ricordo che è antimetafisico, tutto teso alla preservazione dell’identità psichica, questa illusione che la morte rende automaticamente apparente e fugace: “Mio dio, pensava, che uomo ero una volta! Che vita avevo intorno! Che forza avevo dentro! Nessuna ‘alterità’ da avvertire! Una volta ero completo: ero un essere umano”. Un ulteriore totale rovesciamento della tragedia tragica – rovesciamento che però la invera: il personaggio di Roth è omologo di Penteo, in quanto non riconosce Dioniso. L’“io” di una volta è descritto come l’Unico a cui mira il percorso dionisiaco o quello iniziatico orfico: è privo di alterità, è completo e dispone di una forza interna, di una potenza che regge stabilmente l’assolutezza dell’uno. Tutto ciò, in salsa antimetafisica, diventa una parodia di Dioniso stesso. La necessità della morte, e la non necessità della malattia avvertita però come un colpo necessario (mentre qualche personaggio potrebbe morire in un incidente, come càpita peraltro ne La macchia umana), sono gli elementi che determinano il rovesciamento: comunque invasato da Dioniso e sotto sparagmòs, ogni personaggio enuncia con lucidità quanto sia terribile il massacro della vecchiaia. Lo sparagmòs è fisico, ma non allucinatorio – al limite permette sfogo confusivo di emozioni, di fronte al dolore. Ma chiunque è lucidissimo, è lucidissimo perfino l’amico del protagonista che viene ricoverato in clinica psichiatrica e risponde al telefono minimizzando. Questo minimizzare fa il melodramma.

Tutta la retorica di Everyman è melodrammatica. Il tragico contemporaneo non è tragico affatto: prelude a un’azione inesistente e a un cospicuo pensamento, che si attorciglia intorno all’“io”, entità che è la traccia prima e ultima che il nostro distorto umanesimo è disposto a concederci, privandoci di qualunque consolazione nel momento in cui si prospetta l’evaporazione egoica.

E’ melodrammatica la lucidità con cui la seconda moglie del protagonista, Phoebe, sotto ictus, descrive la difficoltà che la paresi comporta. Viene quasi da ridere a fronte di questo melodramma, capace di eiettare frasi come: “Lui attese, mentre le lacrime le scorrevano sul viso e Phoebe lottava per finire la frase”. Questo non è Roth: è Harmony. E come Phoebe, sul letto d’ospedale, affronta l’argomento della paresi: una definizione talmente ridicolmente tautologica che, davvero, c’è da chiedersi se abbiano ragione i critici tanto entusiasti di Roth a sostenere la grandezza di questo autore: “– La paralisi è terrificante, – gli disse lei”.

E tutto ciò accade non a caso. Mentre l’amico in clinica psichiatrica minimizza sulla sua condizione, è il protagonista che manifesta una percezione empatica, la quale ha in sé la traccia della questione tragica, il buco bianco dello sparagmòs: “Dopo avere riagganciato, si chiese: sapeva che ero io? Ricordava veramente ciò che ricordavo io?”. Qui il protagonista si immedesima nell’alterità che da giovane tanto lo infastidiva ed è costretto a mettersi nella posizione di chi sta perdendo l’“io”, di chi sta affrontando l’attraversamento del terrore implicito nello sparagmòs – cioè la perdita dell’identità.

Eppure la renitenza all’emersione della consapevolezza che si sta prospettando non la fine di una realtà, ma la fase terminale di un’apparenza, causa una resistenza assoluta, tale da investire perfino la malattia, che fa le veci del messaggero mortale dell’Everyman 1485. La malattia diventa il canale della libertà assoluta: “Quando mi sono ammalato di cancro quasi tutti i miei blocchi se ne sono andati. Ora faccio quello che voglio”. Il che significa: sono “io” più che mai. Perfino in prossimità della morte, in mezzo alla malattia, “io” non voglio morire, “io” mostro segnali di una vitalità assoluta.

E in gioco è la letteratura. A questa ricetta antiblocco enunciata dall’amico Ez, il protagonista risponde: “E’ una terapia brutale per il blocco dello scrittore”. Questo pubblicitario che troneggia insopportabilmente in Everyman è una metonimia vivente nella finzione: sta per lo scrittore. E’ tutto quanto rappresenta la letteratura oggi. Le sue velleità artistiche sono tali: velleitarie cioè. Egli non aspettava altro che il momento per dipingere e si trova a essere un dilettante a cui non interessa minimamente del momento creativo. E’ lo Zeitgeist contemporaneo, una visione presbiteriana, borghese in assenza di borghesia effettivamente senziente, che trova rappresentazione emblematica in Everyman: questo protagonista dice di sé che “dissolvere famiglie era la sua specialità” e che aveva privato i figli “di un’infanzia coesa”.

A nulla vale il fatto che, quando si appalesa l’appercezione che è sotto lo scacco di un destino, questo elemento del tragico della tragedia antica, la reazione è tragica: è la medesima reazione di Elettra e Oreste sulla tomba di Agamennone, a cui si aggiunge però la quintessenziale negazione che a priori, nel testo, si è già invasati dalla potenza dionisiaca: “Alla constatazione di tutto ciò che aveva spazzato via, per conto proprio, apparentemente senza valide ragioni e, peggio ancora, contro le sue intenzioni, contro la sua volontà, […] all’umiliante constatazione che si era degradato non soltanto fisicamente, diventando la persona che non voleva essere [corsivo mio], cominciò a battersi il petto col pugno, colpendosi al ritmo dei rimproveri che si rivolgeva e mancando di millimetri il defibrillatore”. Un passo interessante: è una trenodia anticipata. Il ritmo dei colpi è quello dei rimproveri e manca solamente la specificazione che il piede di questo ritmo è giambico e compone un ditirambo. Questo misconoscimento di sé è finalmente il segnale dello sparagmòs psichico: la presa di coscienza, comunque negata, che l’uomo non è quanto aveva voluto essere, ogni azione in tal senso è andata a vuoto, e la volontà, questa potenza che l’umanismo rothiano e unamuniano schiera come forza tragica, è sfumata e non c’entra nella composizione identitaria che ha assunto non solo la psiche, ma financo il corpo. Siamo a un passo dal compimento dello sparagmòs fisico ed emerge l’interiorizzazione dello sparagmòs psichico, che Bettini poneva, esaminando le Baccanti, ben prima del cominciamento dell’inevitabile smembramento.

Il percorso strutturale di Everyman è quello dal Gaudium ai Tristia che Benjamin, nel Dramma barocco, rintracciava a proposito della distinzione sociostorica tra poesia comica e tragica. Nel senso di una trascendenza svuotata, Everyman è davvero una tragedia, ma rovesciata, o, meglio, incrociata: poiché si apre coi Tristia e continua con il percorso da Gaudium a Tristia. Benjamin vede bene, quando affida al “flusso di prosa” l’eredità dell’incrocio giuridico-teologico in cui si consuma la tragedia barocca del tiranno e dello stato d’eccezione – Roth ne fa un’esplicita ammissione narrativa: “Da solo, per qualche tempo aveva creduto che la componente mancante in qualche modo sarebbe ritornata per renderlo ancora una volta inviolabile e per ribadire il suo dominio, che il diritto annullato per errore sarebbe stato ripristinato, e che lui avrebbe potuto riprendere da dove si era interrotto”.

Eppure qualcosa non torna. Lo sparagmòs psichico insiste nella sua battaglia con cui pressa, da sotto, la prosa intenzionale e algebrica di Roth: “Si vedeva correre in tutte le direzioni contemporaneamente attraverso l’incrocio principale di Elizabeth – il padre fallito, il fratello invidioso, il marito fedifrago, il figlio impotente – e ad appena qualche isolato dalla gioielleria di famiglia si sentiva evocare tutti i nomi dei parenti più stretti, sui quali non riusciva a guadagnare terreno per quanto perseverasse nell’inseguimento”. Questo incubo è allucinatorio e nella sua testualità indica sparagmòs: una persona che si separa da se stessa in ogni direzione e che prende consapevolezza dell’apparenza della sua identità pronta a sfumare. Un gesto che probabilmente Roth non ammetterebbe avere le valenze che qui gli si attribuiscono – e tuttavia un sintomo inequivocabile che, se il romanzo tenta di essere tragico, non può farlo senza pagare il prezzo di una riemersione del rimosso, che è la super-retorica del tragico che si incarna nella tragedia classica.

Per quanto, come potrebbe fare Penteo, l’uomo senza nome e con poche qualità di Roth affermi: “Io credevo, dentro di me ne ero certo, che la vita durasse in eterno”, che è la posizione del “narcisismo trascendentale” di Unamuno, Roth non può sottrarsi alla memoria dell’ethos tragico che presiede al telos. Non solo ribalta la figura dei becchini dell’Amleto shakespeariano, che anzitutto è una tragedia e solo a partire da questo dato può permettere che le si sviluppino intorno riflessioni, ma non regge alla potenza del telos stesso, praticando un taglio tragico dionisiaco al suo romanzo: “Non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio”. E’ proprio quel “timore” aristotelico che qui si autorappresenta, e la perdita dell’“io” è condotta da uno sguardo consapevole, che osserva l’esistenza non come quella gioia vitalistica tanto rimpianta, bensì come peso. Questo sguardo esercita ybris, tipica della funzione moderna del “narratore onnipotente”: sa cosa c’è dopo la perdita dell’“io”: ci sarebbe il nulla. Una posizione ingenua e saccente, che però è messa in scacco da quanto accade subito dopo l’enunciazione: c’è il bianco della fine, lo spazio di silenzio inqualificato, l’appendice priva di alterità che le storie tragiche aprono: una presenza osservante che implica rammemorazione priva di linguaggio – la sostanza stessa su cui si regge la narrazione. Questo momento di silenzio in cui si apre la possibilità che lo sguardo veda la visione è impedito dal melodramma allestito da Roth, ma permesso dal residuo di potenza tragica dionisiaca che perdura, latente e presente al tempo stesso.

 

  1. b) Operazione Shylock

Due osservazioni, prima di esercitare definitivamente il non-metodo, attraverso l’esposizione di passi che, a questo punto dell’investigazione, si collocano in un quadro ermeneutico che il presente intervento definisce come oggetto del romanzo tragico: il tragico identico alla tragedia. La domanda è: può il romanzo contemporaneo essere l’incarnazione del tragico come potenza che è “il dio della finzione” e che conduce al distacco dal sé identitario? Sì, può: lo dimostrano Body Art di Don DeLillo e La possibilità di un’isola Houellebecq, per non parlare del caso esplicito e assai complesso del Petrolio di Pasolini. La condizione per cui il romanzo sia tragico nel senso suddetto è unica: l’utilizzo di una super-retorica che, in sintesi, si può definire come l’espressione testuale di un affrontamento del buco bianco di uno sparagmòs, psichico o fisico che sia – cioè l’attraversamento della dissoluzione ricomponibile del sé identitario e l’approdo a un sé non individualizzato. Senza questa postura interiore, la letteratura non può essere tragica.

La seconda osservazione. Al tragico della tragedia il contemporaneo ha sostituito il melodrammatico, che è un approccio difensivo: finzionale il suo emotivo, aggressiva per allontanamento del dolore la sua ironia – che non è certo l’ironia tragica dovuta all’amartìa. Il caso specifico dimostra che, all’emersione di reperti del tragico dionisiaco, aumenta la resistenza intratestuale a questa epifania e si consolida in intensificazione la componente comica difensiva.

Un caso emblematico è Operazione Shylock di Roth. Una sorta di unicum nella sua opera, questo romanzo vede agire direttamente Philip Roth in quanto personaggio. Poiché vuole arrivare a esplicitare una tesi scandalosa, Roth si alterizza in un sosia che la enunci al posto suo (e, organizzando così la narrazione, è Roth stesso che pronuncia lo scandalo – solo, lo fa mediante un protocollo di allontanamento, che è l’ironia postmoderna). Questo sosia si manifesta dopo un autentico sparagmòs a cui Roth storicamente è stato sottoposto, per una cura con farmaci che avevano un effetto allucinatorio. Nel romanzo, Roth, in esaurimento nervoso e sotto allucinazione, arriva alla domanda “Dove è Philip Roth?”, cioè: “Chi sta parlando ora, che non sa dov’è ‘io’?”. E’ la chance tragica, che Roth chiude con la sospensione dell’assunzione del farmaco (realmente esistente, qui è tutto cronachistico: il farmaco, bennoto per ciò che implicò ai tempi e tolto dal mercato, si chiamava Halcion, rimando ironico della storia a un mito greco di ordine titanico, cioè relativo a un’imitazione illegittima della deità). Nonostante ciò, come in Everyman, Roth evoca col titolo nuovamente un testo antico, una tragedia, non greca ma shakesperiana, cioè Il mercante di Venezia. Mentre l’intenzione punta al personaggio dell’ebreo nel ghetto, l’usuraio che pretende la sua libbra di carne – e cioè pretende uno sparagmòs –, l’effetto testuale è identico a Everyman: una lotta senza quartiere tra la concezione melodrammatica del tragico contemporaneo e la potenza devastante dell’annichilimento identitario che è il portato del tragico dionisiaco.

La parola a Roth, ora. Le conclusioni al lettore.

Poiché la forma saggistica qui impegnata, che dovrebbe essere narrazione in un tempo antinarrativo, possa trattenere un emblema di quel tragico che è il futuro che preme sulla scrittura, l’avveniente, il non pacificatore che ha in sé la possibilità di concludere come va conclusa, nell’indefinitezza che non permette chiusura, la forma di rappresentazione artistica umana – l’unica possibilità di pace che appartiene alla specie.

Ciò che qui riporto dal romanzo di Roth, per dirla in breve, è per me un libro intero, la narrazione che doveva interrompersi prima che la finzione che non riconosce il proprio dio, cioè la propria potenza governativa del tutto inconoscibile se non per esperienza diretta, prendesse il sopravvento e portasse il libro sugli scaffali.

“Ecco quello che era successo:

Durante i postumi di una piccola operazione chirurgica a un ginocchio il dolore, anziché diminuire col trascorrere delle settimane, aveva continuato ad aumentare, superando di gran lunga il disagio prolungato che mi aveva spinto a decidere per l’intervento. Quando andai a trovarlo per rendermi ragione del peggioramento, il mio giovane chirurgo disse solo: – Càpita, qualche volta –, e, sostenendo di avermi preavvertito che l’operazione poteva anche fallire, mi congedò. Restai lì con un palmo di naso e qualche pillola contro il dolore. Un esito così sorprendente, dopo una breve visita ambulatoriale, avrebbe scoraggiato e fatto arrabbiare chiunque; quel che accadde nel mio caso fu peggio.

La mia mente cominciò a disintegrarsi [corsivi miei, ndr]. La materia di cui era costituito il mio cervello sembrava essere proprio la parola DISINTEGRAZIONE, e fu questa che prese a disgregarsi spontaneamente. Le quindici lettere che formavano il mio cervello, grosse, spesse, di forma irregolare e sottilmente intrecciate tra loro, si staccarono l’una dall’altra, certe volte frammento per frammento, ma quasi sempre in segmenti nonsillabici penosamente impronunciabili di due o tre lettere, dagli orli ruvidi e seghettati. Quella disgregazione mentale era una realtà fisica non meno nitida dell’estrazione di un dente, e il dolore che causava era straziante.

Allucinazioni come queste, o peggiori di queste, mi assalivano e travolgevano giorno e notte, come un branco di animali selvatici che non potevo far nulla per fermare. Nulla potevo fermare, la mia volontà cancellata dall’immensità del pensiero più trascurabile e più idiota. Due, tre, quattro volte, senza provocazione né preavviso, […] piangevo. Piangevo davanti agli amici, davanti agli estranei; anche seduto sul water, da solo, mi scioglievo in lacrime, me le spremevo dagli occhi fino a sentirmi prosciugato, un diluvio di lacrime che mi faceva sentire scorticato. […]

Non riuscivo a impedirmi, a quanto pare, di rimboccarmi febbrilmente le maniche e poi di srotolarle altrettanto febbrilmente e di abbottonare meticolosamente il polsino, solo per sbottonarlo di nuovo e ricominciare quell’insensato rituale, come se il suo significato andasse proprio al nocciolo della mia esistenza. Non riuscivo a smettere di aprire le finestre e poi, quando l’attacco di claustrofobia era stato rimpiazzato dai brividi, a chiuderle come se a spalancarle tutte non fossi stato io ma qualcun altro. […] Sedevo, col cervello paralizzato, davanti al telegiornale della sera: un cadavere. […] Era un’altra manifestazione del panico che non riuscivo a dominare: un panico che di giorno mi assaliva sporadicamente e di notte mi invadeva senza tregua, titanicamente.

Paventavo le ore delle tenebre. […] Mi sentivo in procinto di subire una serie di torture alle quali questa volta non sarei sopravvissuto. La mia unica possibilità di arrivare a rivedere la luce del giorno senza che la mia mente si disgregasse del tutto consisteva nell’aggrapparmi a un’immagine talismanica emersa dal mio passato più innocente […]. Quando credevo (spesso erroneamente), che Claire dormisse, salmodiavo ad alta voce questa formula magica […].

– Dov’è Philip? – dicevo a Claire con voce atona. […] – Dov’è Philip Roth? – chiedevo ad alta voce. – Dov’è andato? – Non era una domanda retorica. Domandavo perché volevo saperlo.

[…] [Mi ritrovai] mezzo convinto, cioè, di dovere la mia trasformazione – la mia deformazione – non a un agente farmaceutico ma a qualcosa di nascosto, oscurato, mascherato, represso, o forse solo di increato, in me, fino all’età di cinquantaquattro anni, ma non meno del mio stile letterario, della mia infanzia o delle mie viscere; mezzo convinto che, qualunque altra cosa potessi immaginare di essere, ero anche questo e, in circostanze abbastanza difficili, avrei potuto esserlo di nuovo, un che di vergognosamente dipendente, insensatamente deviante, limpidamente pietoso, sfacciatamente imperfetto, squilibrato anziché incisivo, diabolico anziché degno di fiducia, privo di introspezione, privo di serenità, privo di quel normale ardire che fa sì che la vita sembri una cosa tanto importante: un che di forsennato, maniacale, repellente, angosciato, odioso, allucinante, la cui esistenza è solo un lungo tremito.

[…] Un incubo sul ritorno di un io usurpatore completamente sottratto al mio controllo.

[…] E’ Zuckerman, pensai, bizzarramente, stupidamente, evasivamente, è Kepesh, sono Tarnopol e Portnoy: sono tutti loro in un’unica persona, liberatisi dalla carta stampata e beffardamente ricostituiti come un solo facsimile di me stesso. In altri termini, se non è colpa dell’Halcion e non è un sogno, allora dev’essere letteratura: come se non potesse esistere una vita-fuori diecimila volte più inimmaginabile della vita-dentro”.

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