FENOMENOLOGIA LETTERARIA DI MATTEO RENZI, LO YOUNG SIGNORINO DI SCANDICCI: NON C’ENTRA UN CAZZO CON LA LETTERATURA
Si fatica a pensare cosa sarebbe Matteo Renzi in letteratura. Un Raskolnikov di Scandicci? Un giovare King Lear? Una Medea al maschile? L’Orestea tutta, condensata nell’interiorità di un solo individuo? Un rovesciamento dell’ultimo uomo morselliano in un “Dissipatio HG” al contrario? Un partigiano Johnny fascista? Un Bartleby che risponde “Lo faccio molto volentieri” e diventa il Moosbrugger di Musil? Un Pangloss sotto efedrina? Un Abramo che ubbidisce pedissequamente e ammazza Isacco? Un Isacco che fugge dalla roccia sacrificale e si mette a fare pernacchie al padre e al Padre? Che mascherà è *realmente* quella di Matteo Renzi? Molto semplicemente, Matteo Renzi è estraneo alla letteratura, perché non è significativo. Il comparto umano, angelico e demonico, che fa il paradiso infernale della letteratura, aspira a esprimere in ogni modo ciò che travalica la storia, abitando nella storia. Si tratta di archetipi che non smettono di impressionare l’umanità, anche in tempi di misconoscimento radicale della letteratura stessa. Matteo Renzi non è sovrapponibile a nessuna figura letteraria, perché non è letterario: non è archetipico, non è rilevante, non è peculiare, non è ricordabile – è più bile che ricordo. Egli è, semmai, un equivoco, quello sì letterario: fa parte delle foltissima schiera dei personaggi che non arrivano a memorabilità. Non è un Uomo Senza Qualità: è un uomo fin troppo qualificato. E’ banalmente leggibile. La sua verve comunicativa, celebrata non si sa perché, è insignificante e ridicola, essa stessa un equivoco: il ridicolo che non fa ridere nessuno. La banalità del sale in zucca non conquista un centimetro nei piatti territori del suo impianto personale e negli spazi sconfinati dell’assenza, morale politica individuale, che sono stati e sono tuttora equivocati come presenza ingombrante o dittatoriale. Renzi non esercita alcuna tirannide, non ne è capace. Né capo né bastone, egli declina l’autoritarismo a Chance il Giardiniere. E’ la mediocrità italiana, certo. Tuttavia, anche Berlusconi incarnava l’aurea mediocrità italiana, in modi che definire eccezionali darebbero la stura a ulteriori equivoci. Matteo Renzi è Servo di Due Padroni: il Sé e lo Stesso. Lo è con vocazione esplicita alla più retriva commedia dell’arte nazionale. E’ Alberto Sordi in un ruolo che straccia ciò che emblematizza, poiché il personale di Matteo Renzi non giunge nemmeno alla significatività assolutoria delle colpe italianissime, dei vizi da strapaese, delle maliziose ingenuità che fanno tutto il carattere nazionale. L’epifania di inarginabile arroganza, con cui ieri è stato in grado all’assemblea Pd di bacchettare comicamente e vergognosamente chiunque non fosse Sé e Stesso, non è per nulla epifanica. Potremmo dire che si è piuttosto trattato del momento fatale in cui tutti noi umani cerchiamo di spremere le ultime gocce dal tubetto del dentifricio. La fenomenologia del Renzi non può del resto ignorare la zanna bianca con cui ritiene di portare il suo Pearl Drops spirituale davanti a qualunque telecamera o a qualunque concione decida rumorosamente di non tenere, soltanto che si tratta di due grandi incisivi a palettone e non dei canini che fanno la grandezza di Iago o la trasognatezza sdentata del principe Myškin. Non c’è nulla di dostoevskiano in Matteo Renzi. E neppure c’è qualcosa di berlusconiano nell’abbronzatura terra di Siena, quindi abbronzatura Montepaschi, che sfoggiava ieri all’assemblea nazionale del partito cosiddetto democratico: Emilio Fede si inscrive nell’immaginario collettivo molto più di questo quarantenne massivo, la sua pelle cuoiata surclassa l’epidermide mattonata del segretario in pectore e in viscera di una formazione che non esiste più. C’è una bella differenza tra un senatore di Scandicci e il locale Mostro. Le offese e la protervia, l’ingiustizia da disperato e la cattiveria da “risietta”, che l’ex primo ministro ha schiumato in faccia ai notabili sconcertati, è una bassa intensità dell’amletico, un’inezia che somiglia rovinosamente più a uno Staffelli sotto lsd che a un Piero Angela inteso a mostrarci dall’interno il colon democratico. Nulla di letterario, molto di televisivo, insomma, in tempi post-televisivi. La grottesca elencazione delle supposte responsabilità altrui, che sarebbero la mesta e narcisa diagnosi comminata alle folle e ai folli, entra di diritto in un eden in cui Dino Risi stringe la mano a Shakespeare e il Bardo non gliela dà. L’odore umano non troppo umano, che promanava da quel momento, per nulla storico nella già poco storicizzabile vicenda dei dem italiani, era quello del gesso rilasciato dal cancellìno in feltro, tirato per dispetto in testa ai compagni di banco. I quali hanno sbagliato tutto. Anzitutto hanno dato un risalto letterario alla roboante nullità di chi cianciava di terza via, imboccando il primo vicolo, cieco per di più. Sono ancora lì, atterriti o acclusi alle logiche della classe elementare che riproduce l’ex leader: non immaginavamo che il futuro della lotta di classe era il passato della lotta in una classe delle primarie, intese come scuole e non come convocazione al voto per il boss cosiddetto democratico. L’ha detta tutta, con il suo garbo ironico e sì dostoevskiano, il povero Gianni Cuperlo, quando ha infilato una battuta che il caudillo di Pontassieve non sarebbe mai in grado di pareggiare: “Oggi non si può cantare ‘Bandiera rossa’, ma nemmeno sostituirla con ‘Uno su mille ce la fa’”. E continuano a tentare l’erosione o la demolizione, anziché prendere atto che non c’è nessuna costruzione. L’edilizia di Matteo Renzi è quella dei chiringuitos, delle cabine da spiaggia col buco per vedere le tette, dei banchetti delle Patriarche. Matteo Renzi banalmente non è. Anche i personaggi di Kafka non sono: ma non sono in modo ciclopico. Non essere, in modo trascurabile, fa tutta la storia recente di un partito a cui eravamo affezionati in qualche modo, soprattutto critico. Mentre stava governando il quarantenne giubilato da Mike Buongiorno, che fa proprio il paio con l’altro Matteo giubilato da Corrado Tedeschi, i Wu Ming ebbero la felice intuizione di lanciare un hashtag che valeva il dimenticabile destino del creatore degli 80 euro: #RenziScappa. Scappava da qualunque confronto, da qualunque occasione reale in cui avrebbe potuto incontrare precari incazzati e operai furibondi. Era davvero la più pura rappresentazione del genoma renziano: non esserci e molto velocemente. Si vorrebbe che i colleghi di partito di questo oratore in camicia bianca slim fit incominciassero a considerare che lo Young Signorino toscano non c’è. Scappa. Va via. Si sottrae. Lascia che a roboare sia il suo silenzio, soprattutto quando parla da Lilli Gruber, che è per lui una prospettiva entusiasmante, il massimo del confronto dialettico che si concede. E’ ben vero che Sua Irrilevanza controlla ancora i giochi di un partito che ha condotto appunto all’irrilevanza, sfruttando – e questo va sempre sottolineato – la Loro Irrilevanza, secondo le premesse che fecero il dna di quell’ibrido politico. Ma chi se ne frega? Forse non è abbastanza chiaro che il massimo della letterarietà del personaggio che non è, davvero, risiede in una battuta da Colorado Cafè o in un calembour di Fortebraccio: da quel podio nessuno ha parlato, era Matteo Renzi.