Sto scrivendo sull’intelligenza artificiale e il punto mi sembra questo: al di là dell’avvento effettivo degli algoritmi, che determinerà una configurazione sociale tutta da decifrare e in qualunque senso inedita, viviamo – e ci apprestiamo a vivere sempre di più – un momento politico che è determinato dall’accesso alle tecnologie e che progressivamente risulta un accesso di noi nell’enviroment digitale, almeno tanto quanto l’ambiente digitale sta avvicinandosi ed entrando in noi. Questa fase si caratterizza in termini di delirio clinico, con l’emersione anzitutto di un narcisismo di base assai potente, che è appunto delirante perché si smaterializza il principio di realtà, lo scontro effettivo con la presenza fisica dell’altro, che impone paura e traduzioni culturali della medesima. La riserva di paura dell’esistere, che è un dato costante del fenomeno umano, si traduce in una tipologia arcaica della collocazione rispetto al mondo – anzitutto veteroidentitaria e securitaria. Ciò determina una dissociazione a bassa intensità che oserei dire collettiva, prima che individuale. E’ una postura schizoide, in cui l’argomentazione, la riflessione e ogni tipo di “secondarismo” non trovano appiglio, non conducono verità al soggetto, sia personale sia comunitario. La cultura che fa da tampone, da cache, da spazio di decompressione, insomma, ripristina moduli che la vita urbana e occidentale, nel secolo scorso, riteneva di avere debellato. Questa cultura è anzitutto fascista, nel senso più propriamente antropologico e metastorico, se mi è permesso di forzare un fenomeno storicamente determinato, in una direzione più lata e propriamente meno individuata. Emergono canoni collettivi istantanei, in piena armonia con il caos che un tempo si poteva pensare di recludere nelle sentine soggettuali. E’ una transitoria mente bicamerale che si delinea nello spazio e nell’arco breve di un tempo così limitato, da apparire impossibile per il manifestarsi di istanze tanto enormi. E’ in questo nesso tra algoritmo che si avvicina e attività onirica di veglia, che io ravvedo il brutalizzarsi della condizione umana delle popolazioni ricche. Già la dispercezione, di cui gli italiani sono preda, sentendosi depauperati e quindi poveri tout court, è indicativa del grado di delirio a 40 watt che prende le genti benestanti – poiché noi siamo una comunità benestante, basilarmente e piuttosto definitivamente. L’esasperazione come forma di espressione della dissociazione: ecco lo snodo, in cui l’illuminismo algoritmico non prevedeva di ritrovarsi, di generare, di esporre un’umanità alienata ad attendere una risoluzione esteriore e mai interiore. In tutta questa deriva, infatti, il lavoro sull’io appare piùdifficoltoso di sempre, rispetto agli ultimi decenni – e non è un caso che siano i paradigmi psicologici e psicodinamici a crollare. Si vive nel segno di una possibile abolizione del principio di non contraddizione aristotelico, uno dei cardini della via occidentale al mondo. A ciascuno il suo hater e il suo *hate* quotidiano. Per rimediare a questa situazione di generalità, servirebbe una terapia, probabilmente a base di miti, nel tempo in cui l’appercezione mitica è minata o inefficace. Resta la militanza a favore di ciò che è angelico nell’umano, esattamente come avevano previsto le metafisiche applicate all’ordine della vita comune. Ogni gesto sarà eminentemente politico, al termine del viaggio politico dell’umano nel mondo.