Non ci sarebbe necessità di parlare di quanto sta accadendo sulla nave Diciotti nel porto di Catania. Invece bisogna dire, bisogna rimarcare, bisogna evitare il silenzio comodo e complice. Ha ben ragione un mio caro amico, che è scrittore, quando osservava, nel corso di una recente telefonata, che un intellettuale ha il dovere di non farsi dettare l’agenda da Salvini, intervenendo a stretto giro sulle malefatte del ministro più crudele dell’intera storia repubblicana. È vero. Sarebbe opportuno sottrarsi a questo frenetico fascismo dei fatti, che implica l’azione centrifuga di codesto fu lumbard, prestato al più cupo registro rossobruno. Tuttavia non riesco a lasciare inespresso il mio sdegno a fronte della storica dimostrazione di pura malvagità, con cui l’ex concorrente di Doppio Slalom detiene 177 persone in ostaggio su un vascello della guardia costiera. Il gioco alla brace sulla carne sfrigolante dei diseredati ha raggiunto proporzioni e intensità inaudite. C’è anche spazio per la propaganda trita del “papà” che sarebbe sempre lui, l’uomo che non ha mai lavorato e si è fatto dare in faccia del fannullone al parlamento europeo, dove brillava nel più smodato degli assenteismi, non partecipando neppure alle sedute in cui si tentava di riformare il trattato di Dublino, che sventola ora come carta certificante la sperequazione degli accoglimenti. Genitoriale senza essere né 1 né 2, ha accondisceso allo sbarco di 29 minori, per confermare che “l’Italia ha un cuore grande”, scambiando il fatto cardiaco con la diverticolite che domina la nazione. È un sequestro di persona collettivo, uno ‘ndranghetismo gestuale che grida vendetta al cospetto di Iddio, quello stesso ente superiore a cui il Bluto milanese ha sottratto un rosario, per giustificare i cazzi propri e dei suoi compagni di suprematismo. Si è molto grati a Pippo Civati e a Maurizio Martina, che sono giunti a Catania, per chiedere che gli ostaggi siano rilasciati. Essi rappresentano me e gli altri concittadini ostinatamente diretti control mainstream orrorifico, in cui il Paese bascula tra immoralità cruenta e odio specifico. Vorrei che ognuno di noi italiani fosse su quella plancia, a guardare negli occhi questi fratelli e sorelle umani, il tremolio negli arti incerti, l’odore di medicazione alle parti ustionate, il ricordo impresso nel corpo della recente disidratazione, il rischio di morire male piuttosto che la certezza di vivere peggio. Oltre l’interfaccia dei device, su cui compitano l’orrore di insulti e aberrazioni varie, i nostri connazionali, che berciano sul diritto del mare, dovrebbero toccare le carni tremule e offese di questi detenuti sul bastimento ad altezza 2018, un anno che si pensava conquistato ai valori della modernità democratica e della solidarietà ubiqua. C’è un cadere rapido di corpi, un collasso dei sentimenti e delle intelligenze, una banalità maligna, un discredito organizzato, una perennità dell’inverno del nostro scontento, una patologia dell’idea fattasi retropensiero e cattivo istinto. Da mesi vediamo realizzarsi l’orrore di Stato, tra affermazioni sconcertanti e iniquità prodotte a ciclo continuo. L’istituzione è stata abbattuta al ritmo delle menzogne propalate come verità e delle pavidità conclamate come eroismi, a favore di un lumpen italiota, che vive i sacri furori della peggiore borghesia del secolo trascorso: la sicurtà, la paura trasformata in aggressione, l’esclusivismo più becero e razzista. Forse l’opera dello scrittore è dimenticabile e marginale, in questo tempo privo di testualità e ricco di visceralità la più abominevole. Tuttavia vale ricordare a Matteo Salvini che le scrittrici e gli scrittori uniti, questa specie del tutto naturalmente socialista e preternaturalmente impossibile da estinguere, stanno preparando le parole per eternarlo come merita: è la nuova colonna infame, il nuovo maelstrom, il nuovo colore venuto dallo spazio, la serpe schiacciata dal tallone della storia. È il niente e, come ogni niente, è dannoso. E vorrei stringere le mani agli assiderati, portare soccorso agli assediati, vigere con la norma umana, in questa penisola desolata e desolante. Sorelle e fratelli umani, scusateci tutti.