Il comizio di Di Maio al Tg2 e il contemptus mundi

Ierisera, il più innocentemente possibile, assistevo al Tg2 e, il più colpevolmente possibile, sono rimasto travolto da un non tanto improvvisato comizio del vicepremier Luigi Di Maio. Era uno sproloquio strategicamente vòlto alla conquista di un consenso subitaneo a partire dal lutto nazionale per la tragedia del ponte Morandi a Genova, qualcosa di immarcescibilmente stupido e cattivo, l’elementarità del processo di piazza privo di qualunque mediazione riflessiva, una speculazione indegna sul dolore e sulla reattività al dolore. In non poche battute, questo discorsetto da piccolo duce intestinale raggiungeva un record storico, che neppure il tycoon dell’epoca passata si era permesso di toccare: veniva liquidato in quattro e quattr’otto l’intero sistema democratico. Disabilitata la magistratura, azzerata la competenza tecnica, stravolta l’analisi storica e dunque anche attualistica delle responsabilità relative alle sciagurate privatizzazioni – veniva creato il primo e più potente ululato che scatena la canea e il linciaggio social più delirante e informato malissimo. In un groviglio di accuse alla famiglia Benetton, ai due governi precedenti, alle manutenzioni suppostamente mancate, saltava definitivamente la mediazione culturale e politica, che anzitutto sono letteralmente ciò che sono: mediazioni. La stura comminata all’intestinalità della nazione appare come una strumentazione di tipo antichissimo, che si sperava depotenziata, se non addirittura debellata. In quell’intervento da dieci minuti in diretta su un telegiornale emesso dal servizio pubblico, si agglomerava il peggio di una concezione padronale del potere, falsamente condotta in nome del popolo, poiché il popolo si compatta anche in base all’irradiazione culturale e politica, e si convocava l’eterno paradigma della prima persona plurale contro la terza persona plurale, in una contrapposizione sperequata dello schema “amico/nemico”, nutrita di balle abnormi, di nozioni abborracciate, di pressapochismo criminogeno, di incoerenza rispetto al cursus dishonorum della fazione politica di provenienza, di irresponsabilità rispetto alla carica che si riveste. Ho assistito al compimento della disintermediazione: avveniva attraverso un’intermediazione irresponsabile e comunque cercata, voluta, portata a termine. Era il rigurgito di un decabrismo al contrario, che intende insediare e non detronizzare lo zar, in nome di uno statalismo ributtante, che invera il peggio del liberismo, mentre si dichiara nemico di qualunque liberismo. Mi pare che ciò che stiamo vivendo siano i prodromi – di cosa, si vorrebbe nemmeno immaginarlo, quando lo si immagina perfettamente. Che un premier inesistente, circa la cui natura volatile si vorrebbe comprendere se la Costituzione non dica qualcosa di preciso, e di formazione pure giuridica, affermi impunemente che il governo non sta ad attendere i tempi della giustizia penale – è l’assalto più comico e più devastante ai meccanismi di una democrazia rappresentativa, di cui si è inteso cancellare la validità universale e la funzione di rappresentanza delle istanze collettive. L’annullamento della mediazione è consentaneo al regime collettivo, che si è informato tecnicamente in questi anni, addirittura in questi mesi: vige la reattività percettiva, contro qualunque secondarismo e sedimentazione, che la riflessione e la delega di rappresentanza concedono. Questa storia viene da lontano e non soltanto dalla cifrematica del temperamento nazionale, ovvero la sua eterna finzione di un sanculotttismo interpretato come giacobinismo. Ci sono ragioni storiche ben più prossime, a spiegare la deriva di questo Paese Senza, divenuto Nazione Con Troppi Con. C’è un ventennio di scatenamento spettacolare del momento politico, un’esperienza di sottocultura generale e acuta, che ha fatto da brodo di coltura per tutte le tentazioni peggiori del soggetto privo di confronto comunitario. E’ in quel ventennio politico e televisivo, orrendamente sottoculturale, che si è elaborata la comunità dei separati, che rivendicano un “io” in forma di “noi”. Si tratta di un’epistemologia della separatezza, concresciuta con gli istinti meno alfabetici: rabbia, orgoglio, frustrazione. Il tutto senza il filtro culturale fondamentale, che ha fatto paradossalmente la storia della specie: il senso di colpa, che è il rappresentante del sintomo fisico, della prova di realtà, e l’inizio di ogni morale. Non mi sento di annoverare me stesso nelle file dei moralisti, non è mai stata una prospettiva personale, per quanto mi riguarda; ma mi sento di annoverare il vicepremier (sia l’uno sia l’altro) nelle schiere degli immorali, perché stanno portando a culmini prevedibili un omicidio etico, un genocidio del sistema articolato di virtù e vizi. E’ la premessa maggiore di un’ontologia sociale che mostra i caratteri precisi della riduzione a uno di tutte le cose, il che è per me il rappresentante di un fascismo metastorico, di un filosofema che ha fatto milioni di morti nel corso della vicenda umana. Ci si trascina così, violentemente, subitaneamente, alla rinuncia del sapere come strumento di rapporto col mondo, qualcosa di ossimorico rispetto alla pretesa informazione a cui giungono tutti i separati e reattivi in questo momento sociale. E’ creata in questo contesto, ex novo ed ex abrupto, la dismissione della lingua come dispositivo di rapporto con se stessi e con la realtà. Resta un’epidermide sempre scarnificata, che trasmette dolore ai centri nervosi anche se la si carezza. Più grave di tutto: si interrompe la logica di amore, il paradigma con cui si osservano le devianze mostruose del conflitto, dell’abiezione, della propalazione delle disuguaglianze. A criticare in questo modo l’angolo epocale che si sta vivendo, si deve pure sopportare l’impressione che si stiano difendendo gli interessi consolidati, le camarille agglutinatesi nella fase più insidiosa della vicenda del capitale. Poiché è tutto dualità, tuttavia, si può osservare comunque il risvolto positivo in tutto ciò, che consiste per me in una spinta alla consapevolezza personale, alla presenza centralizzata della coscienza – il tempo meno metafisico della vicenda occidentale è paradossalmente il più metafisico. Il contemptus mundi è una chance che si presenta in ogni istante a quella demonologia angelica che è l’umano. Oggi, forse, un po’ più che prima. Quindi: buona consapevolezza a tutte, a tutti.