Ieri ho partecipato a una delle presentazioni più emotivamente coinvolgenti della mia vita. Si parlava de “L’inferno è una buona memoria”, il nuovo libro di Michela Murgia, edito da Marsilio nella nuova collana PassaParola, diretta da Chiara Valerio. L’incontro avveniva sotto un tendone tensostrutturato, al parco Sempione, nell’àmbito del festival antirazzista dedicato ad Abba, immigrato del Burkina Faso ucciso a sprangate dieci anni fa, da due negozianti che lo accusavano di avere rubato una confezione di biscotti – fu un fatto che sconvolse Milano e che innescò una reazione civile e politica impressionante, con una mobilitazione generale contro il razzismo, che dopo un decennio non si è spenta. Accanto a Michela Murgia, questa scrittrice e intellettuale che è un patrimonio nazionale, si è discusso del suo testo, occasione di intenso ragionamento e di espressione passionale su temi macroscopici, dal femminismo alla religione, dalla cultura di origine alla sostanza del potere, dalla poesia all’attualità. Non è possibile riassumere tutti gli sguardi e le prospettive che la scrittrice ha lanciato, a favore dei circa trecento lettori e lettrici intervenuti, suggestionandoci e guidandoci in una riflessione rigorosa, feroce e appassionata, che ha lasciato tracce non delebili in tutti noi. Raramente mi è capitato di assistere a un rapporto simbiotico e a un attaccamento umano e umanistico tra chi ha scritto un libro e chi è pronto a leggerlo. Per me, che formulavo domande a Murgia, è stato parecchio commovente, in alcuni passaggi ero sottoposto a una doccia fredda di brividi e a frantumazione dei miei blocchi interni. Non so come ringraziare Michela. Provo a dire qui in breve cosa mi pare del suo compatto, folgorante, sistematico libro. Anzitutto: parrebbe un saggio e non lo è. Si tratta di un formidabile oggetto ibrido, che, alla meditazione a partire da “Le nebbie di Avalon” di Marion Zimmer Bradley, sottopone a una forza centrifuga e centripeta il ragionamento: la forza centrifuga è una funzione filosofica e politica, con cui Murgia arriva ad attaccare il carattere maschile della grande narrazione costituita dall’immaginario, con tutte le sue derive cogenti e i condizionamenti sociali e politici che, senza una consapevolezza piena, esercitano su di noi l’aberrazione in modo implicito e infido; la forza centripeta è costituita dalla potenza poetica, schierata dall’autrice de “L’accabadora” attraverso la stesura di mirabili e impressionanti monologhi, in cui si dà voce alle personagge della materia di Britannia, da Morgana a Igraine a Ginevra, connettendosi a un canone che in principio era orale e versificato, quindi arrogandosi un ruolo attivo in un’elaborazione collettiva ciclopica e storica. Centrare il discorso sull’attribuzione di una narrazione al fenomeno femminile innesca riflessioni penetranti e rivoluzionarie, rispetto allo storytelling occidentale, alle tradizioni intossicate di sguardo al maschile. Murgia centra il discorso sul femminile intorno al perno dell’ambiguità, delineando un’indifferenza assoluta tra racconto delle virtù, enfatizzato in vista della santificazione o deificazione, e assunzione della negatività e del perturbante che il femmineo incarna, al di fuori dell’ideologia dei “ventri magici” e della costrizione al momento generativo, a cui la donna va incontro quando a guardare e narrare è il maschio. “L’inferno è una buona memoria” diviene così anche modulazione del canto di un’infanzia, di una pubertà, dell’età adulta e dell’indentramento nell’invecchiamento personale, oltreché collettivo – figure matriarcali, visitatrici di mostre sul Divisionismo, bambine oscure da cui proteggersi più che proteggere, giocatrici di live fantasy, vicepresidentesse Acli, doppie e ultime madri: una cosmografia personale e poetica, ovvero universale, che la scrittrice declina senza posa, mostrando una lucidità ermeneutica e una presenza emotiva implacabili e toccanti. Viene elaborato un testo che individua una crucialità del nostro presente, il che non significa il tempo attuale di oggi, bensì di ogni oggi, poiché la questione del rapporto con il potere, l’identità, la colpa e la memoria, a cui finalmente viene agganciato il discorso femminile, avviene senza posa nel nostro presente, da quando ci siamo: è davvero *la* questione e non si sfugge all’elaborazione di più soluzioni e di un avvertimento della poliedricità del reale – la parola è una ed è tutte le molte parole, così pure il femminile è uno ed è tutti i femminili possibili. Storia, narrazione, assalto politico, amore, ambiguità: gli universali sono maturati nel verbo fattosi parola, cioè sostantivo femminile. Non si esce che trasformati da un simile racconto, da una così acuta esperienza di pervasività del temibile, che Murgia ha compattato in pagine davvero dense di crucialità. Di questo si è parlato ieri e questo si è ascoltato, fatto proprio, vomitato e metabolizzato.
Di questo io non posso che essere grato a Michela Murgia, madre che non è solo madre, madre prima e ultima madre, che dà forma alle colpe e agli inferni, alla cosalità e all’intenzione di emanciparsi dalle cose tutte.