Nel diciassettesimo anno delle Torri Gemelle

Oggi è l’11 settembre e a pochissimi italiani sembra importante ricordare cosa accadde e cosa determinò ciò che accadde diciassette anni fa. Il canone storico si vaporizza sempre più intensamente, rendendosi pura aleatorietà, come natura crea, visto che la natura impone tutto un altro funzionamento della facoltà mnemonica, mentre per il fenomeno umano essa era il fondamento della culturalizzazione della realtà, dell’espressione mitica, della normatività legata alla gestione del reale, della parodia di un ordine divino in terra. Assumerò questo menefreghismo verso il contesto neuronale in modo polemico, tardivo e del tutto vintage. Io ricordo la frenesia e la vibratilità del sistema nervoso a contatto con quel ciclopico loop di immagini e di percezione del clamoroso, a cui l’11 settembre 2001 mi fece accedere, con dispendio di oscenità mia personale e collettiva. Ogni secondo era uno scoop. In precedenza, il riferimento mio individuale a una simile oscenità si raggrumava nell’attesa spasmodica che mio padre rientrasse a casa, per potergli rivelare la notizia del giorno e dell’anno e della vita intera, e cioè che era morto in incidente in pista il pilota ferrarista Gilles Villeneuve: era il 1982, avevo dodici anni e apprendevo le tecniche dell’oscenizzazione di me stesso. L’11 settembre espanse e intensificò quella sensazione di morbosità e di dissipazione di ogni sistema morale. Ero appiattito sul momento, che risultava certamente istantaneo, ma dilagava in una sorta di eternità e dilatazione eonica – un eone durato un giorno. Molto più che il crollo di Berlino o l’annullamento di una fondamento storico immutabile e statuario come l’Unione Sovietica, a conti fatti, aveva sortito su di me una simile vivescenza dell’immagine della fine vissuta in diretta. I complotti guadagnavano qui la loro legittimazione pubblica, la loro pervertita attualità, il loro simbolo transeunte e supremo. La legge dell’atmosfera risultava elettrica in quelle ore. Ogni pixel vibrava e si esaltava, come se la cronaca, fattasi storia in tempo reale, fosse stato ripassato da un evidenziatore spirituale. Il momento era canonico: fu l’ultima esperienza collettiva di canone. Dopo le Torri e il Pentagono, la storia si cronicizzava incronachendosi, qualunque dramma sarebbe scivolato nel repertorio dell’oblio: quante stragi in Europa avremmo dimenticato, in Spagna Belgio Germania? L’elenco dei morti era irricevibile dallo spettacolo, che andava compiendo il suo mandato secondo le ritmiche frenetiche dell’11 settembre, quando i cadaveri erano da subito 25mila e non era vero, ma era vero comunque? La spettacolarizzazione non della morte, bensì dell’omicidio di massa, era una sostanza civile, in cui accogliere l’abbrivio militare, che da sempre premeva contro il set spettacolare: ecco una guerra civilmente spendibile, cioè apprezzabile dai civili, ed ecco la regola aurea di ciò che finora avevamo visto coi nostri occhi intesi a decrittare e coagulare in senso i pixel dello schermo! Roteavo nella città, finii alla sede milanese della Rai, dove mi accolse un muro di schermi televisivi, sintonizzati con Cnn e qualunque altra emittente internazionale, dove si appressava in maniera discrasica e confusionaria il riciclo delle stesse immagini, la sostanza del dramma trasformata in godimento collettivo, a favore di nessuno spettatore. La ritualità si infrangeva contro la diffrazione delle immagini. La nube edile della torre crollata si avanzava come un’onda anomala di polveri della storia, fino a portare a nero la ripresa in soggettiva. Non si respirava, né a New York né a Milano né nella Storia. L’asimmetricità delle concause apriva a qualunque potenzialità lo sperpero di ipotesi, moltissimi maggiordomi erano colpevoli, indossando kandura kippah o spezzati da Fbi. Lo sconcerto scimmiesco del presidente in carica, una sorta di utile idiota con la pupilla glauca e la tonalità brizzolata che rassicura gli elettorati occidentali, apparve da subito una coglioneria di un potere pronto a trasformarsi, a rendersi più aereo, più ubiquitario. E cadevano, cadevano, cadevano. E aumentava a dismisura la libido di vederli cadere, cadere, cadere. Nel momento in cui accadeva, già si pensava al memoriale che gli americani ne avrebbero tratto. Il ventre molle del capitalismo era il capitalismo stesso e le pulsioni conducevano l’arcaico a una nuova forma di militarizzazione della realtà. I fondamentalismi prendevano forma definitivamente spettacolare, definitivamente morta. Ciò che uccideva moriva con l’uccisione. Ogni trascendenza era abolita. La pietà cristiana era un peloso sventolio di stars&stripes mestamente innalzate nel giardino davanti alla villetta monofamiliare. Era già tutto dopo, mentre stava accadendo ora. Il mondo assunse una nuova forma? Sì, portandola da latente ad attuale. Era una forma obliqua e indecifrabile, indecifrabilmente *strana*, un orrore ambiguo che non terrorizzava nessuno degli spettatori, imponendo al contempo il terrore come eziologia geopolitica, militare, economica e quindi autorealizzantesi, nella quotidianità in cui le alienazioni occidentali si creavano i loro bacini di validazione: andare al lavoro avrebbe significato altro che andare al lavoro, mentre si saliva in metropolitana con la paura del Sarin e dell’antrace, con l’imminenza sempiterna di un’esplosione di ordigni di vario colore e religione. Ah!, quella freschezza dell’accadimento!, quella veridicità dell’istante storico!, quella bella angoscia di stare tutti insieme, planetari ed eterodiretti, partecipando alla propria eterodirezione! Come vorremmo che cadessero migliaia di Twin Towers sempre! E’ stato un grande momento, un grande sogno vivere, un’enorme abluzione rituale, una letteratura… Proprio per questo non frega più a nessuno. Quante torri sono state erette da allora? Quante ne crolleranno? E quando crolleremo *noi*?

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