Attualità de La Rete: per un nuovo movimento democratico

Quando ero giovane, a inizio dei Novanta, mi attestavo alle soglie di una felicità sentimentale e dell’origine letteraria delle mie ossessioni, spartendomi tra amore e poesia. Sperimentavo un precariato più o meno feroce, ma anzitutto grottesco, lavorando per un’emittente lombarda che invadeva l’etere con una programmazione dilettantesca, a titoli insostenibili, come “Il rotocalco del benessere”, la trasmissione per cui firmavo servizi indecenti, citando sempre in apertura versi a caso di Milo De Angelis. Era un momento tumultuoso nella società italiana, che gestava Tangentopoli, ovvero la nostra traduzione del crollo del Muro di Berlino. I partiti tradizionali, queste entità soloniche che ruminavano nei millenni, manducando la storia nel loro stato di sepoltura perenne, come nemmeno i Grandi Antichi di Lovecraft, entravano in crisi e si incominciava a intravvederne la fine. Che la Democrazia Cristiana arrivasse a preludere la propria inesistenza era un fatto che nemmeno la piramide di Giza trasformata in un tabacchino poteva pareggiare: era semplicemente inimmaginabile. La classe politica raccoglieva il rancoroso disdegno di un orrendo giacobinismo italico, che oggi matura ed esplode in forme discrasiche di odio da social. Gli italiani ritenevano di fare la rivoluzione stando sui divani, a vedere i servizi di Paolo Brosio, affannatissimo, che non riusciva a contenere nei suoi elenchi i nomi su nomi indagati o passibili di indagine. Chiunque era unito a se stesso e alla propria comunità nell’osceno piacere di scrutare l’impudicizia di Renato Altissimo, il rotacismo di Giorgio La Malfa, la perennità trascurabile del biotipo Nicolazzi, l’imbarazzo salivare di Arnaldo Forlani, le pause silenti e leonine di Bettino Craxi. Già Primo Greganti non andava bene: non era famoso. Un’orgia del potere di serie Z. Nel ribaltamento istituzionale e politico, emergeva una strana forma di movimento, un antipartito che ai tempi mi sembrava ingenuissimo per variegata composizione, idealista secondo quella speranza che illuminava le fronti di tutti i cattolici democratici della mia generazione vaticanoseconda, legalista in forza della presenza di tutti i paladini dell’antimafia e dell’anticorruzione. Si chiamava così: La Rete – Movimento per la democrazia. Era difficile irregimentare quel soggetto multiplo e proteiforme, che già dal nome includeva vuoti e orditi, giunzioni e relazioni con l’idea di superare l’idea stessa di apparato. Spuntavano volti di donne e uomini di buona volontà, da Nando Dalla Chiesa a Pina Maisano, la vedova di Libero Grassi, ad Antonino Caponnetto a Claudio Fava a Giovanni Colombo a Diego Novelli. Un’unione di cattolici e liberali, di istanze sociali ispirate al cardinale Martini e al civismo democratico, certamente progressista ma distante dai modi legulei e brezneviani di qualunque sinistra istituzionale. Sorgeva elettoralmente la Lega, la Rete ne era l’opposizione naturale. Non certo lo era ciò che tentava di arabeggiare fenicemente dalla trasformazione del Partito Comunista in una confusa ma sempreguale Cosalità. A Milano si ebbe la rappresentazione di questa opposizione tra forze novissime: alle amministrative del 1993 si contesero la poltrona di sindaco proprio la Lega (con Marco Formentini) e la Rete (con Nando Dalla Chiesa). Entro sei anni la Rete era confluita altrove, dopo un volteggiare tra sigle costituende e brand di dubbia futuribilità. E così vidi confermati i miei dubbi: non si può agire politicamente con un soggetto di soggetti, se si deve arrivare in Parlamento. La tentazione sempiterna del comitato centrale, per me che ero cresciuto in quel credo nicodemista, era un postulato da cui dipendeva un’intera matematica politica. Era fresca e bella, la Rete, ma troppo inerme a fronte della spigolosità della realtà, alla struttura labirintica che da Roma irradiava e reggeva il Leviatano italico. Forse era un esotismo – mi dicevo negli anni -, forse una piccola utopia, forse un fronte popolato da quelli buoni, forse un associazionismo spinto oltre le proprie quote di resilienza. Finché è arrivato il 2018, con le cupissime ore italiche e continentali e mondiali, ma soprattutto italiche. Questo buio che spegne la civiltà e appicca roghi e fa strage delle carte firmate dai padri. Queste ore cupe in cui violentano i diritti, discriminano i bambini, assaltano le donne, si preparano a distruggere la legittimità di qualunque genere che non sia quello vidimato dai cattolici lepantisti. Questo oscurantismo. Questa incapacità del partito che dovrebbe rappresentare le prospettive democratiche e non riesce a pronunciare una singola parola che rimbombi nella realtà attraverso il suo popolo. Questo partito di supposta sinistra che non ha più un suo popolo. E allora ho capito qualcosa che so da sempre: che sono spesso un cretino e che, della Rete, avevo completamente sballato il giudizio. La Rete era clamorosamente in anticipo sui tempi. La Rete non era una forma postmoderna per la politica degli anni Novanta: era l’unico soggetto politico possibile nel 2018, per chi intende contrastare l’erosione dei diritti che si sta consumando con l’opera malemerita dell’attuale compagine governativa. E’ inutile ipotizzare fronti da Tsipras a Macron, una formula che è ossimoro e velleitarismo e ignoranza. La forma è la Rete. Bisogna rifare la Rete. Bisogna rivoluzionare del tutto l’idea di partito e anche quella di movimento monocratico come quello pentastellato agli ordini di un giovane tycoon di seconda generazione. Bisogna federare i soggetti, lasciando loro lo spazio per esprimere le differenze specifiche. Bisogna sussumere le ragioni laiche e quelle del cattolicesimo sociale, il moderatismo tanto quanto i movimenti per i diritti e le associazioni tematiche. Non è la logica dell’arcobaleno, ma quella della Rosa Bianca. La Rete è la struttura flessibile che mostra nodi in cui si incontrano fili orientati diversamente, addirittura perpendicolarmente. Avevo davvero sbagliato tutto: ciò che credevo trapassato, davvero, era il futuro. Vorrei convocare persone, gruppi, soggetti a costituire nuovamente un simile contenitore a maglie larghe. Credo che sia l’unica possibilità di creare un argine da sinistra e da centro, un mainstream in cui riconoscersi orgogliosamente, capace di dribblare perfino la questione monocentrica della leadership, per lavorare all’allargamento dei diritti, allo sviluppo economico giusto, all’abbattimento dello sfruttamento ovunque, alla consapevolezza ecologista, all’innovazione secondo ritmi umani, all’emancipazione degli ultimi e dei margini. Da scrittore, ovvero da piccola funzione intellettuale che sono, posso lanciare questa proposta, un messaggio in bottiglia, sperando che qualcuna e qualcuno lo raccolga. Penso che si possano organizzare quanto prima a Milano assise generali di una composizione tanto articolata, che intende trovarsi sui temi generali e le battaglie democratiche fondamentali. Che ne pensate?

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