Il libro “Oscuro arcaico”: il quarto capitolo

Quarto capitolo di un libro che non vedrà mai la luce, perché è troppo cupo e indecifrabile per qualunque sostanza luminosa. I fotoni divengono sfere di ottone ossidato, se entrano in contatto con questa narrazione. Si intitola “Oscuro arcaico”, è del tutto inedito. In questo capitolo si parla di: gli armadi. Per i capitoli precedenti, i link nei commenti. Eccolo.

OSCURO ARCAICO

un inedito cupo di Giuseppe Genna

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Capitolo quarto

Come dei Soloni muti immobili stanno un po’ dovunque gli armadi. Sono fatti di mogano, la polvere ne rende offuscato il legno ottocentesco. Sembrano delle teste verticali, dell’Isola di Pasqua. Nella camerata, negli spogliatoi antistanti i bagni, nelle giunzioni delle scalinate, nei corridoi, perfino in cucina stanno, monumentali e serrati in se stessi, questi armadi sapienziali.
Ciò che di fine vi è nella vita non è che pare bandito di qui; non ha mai inteso nemmeno arrivarci. Nessun enigma, nessuna dissoluzione, se non quella prevedibile adolescenziale, fatta di lacrime immotivate e stupide, che più tardi magari verranno ricordate confusamente, con tenerezza. A questo proposito usiamo portare con noi fazzoletti di stoffa, bianca, a volte ingrigita dall’amido dei lavaggi, una cornice di trama finemente colorata corre lungo il perimetro. Posso tergermi così le lacrime, oppure soffiare il naso riempiendo il tessuto di muco, che poi si secca, in questo caso successivamente è opportuno separare i lembi del fazzoletto che risultano appiccicati dal muco asciugatosi. Terminato il pianto, si gode di un rilassamento del sistema nervoso.
Anche gli altri collegiali, posso giurarci, piangono; però non si fanno vedere da nessuno. Anche per questo esistono gli armadi. Si entra e si chiude l’anta, si sta un po’ nel buio che sa di naftalina. Si prende la pallina di naftalina, poco più grande di un nocciòlo di sambuco. La si annusa, quasi si andasse a tentoni con l’olfatto. Sprigiona aromi dovuti a atomi che si liberano nell’aria, rarefacendosi. Ciò si chiama sublimazione. Il passaggio della materia dallo stato solido a quello gassoso, senza passare dal liquido, è comunemente detto sublimazione. C’è qualcosa di contronaturale nella constatazione che un corpo solido evapora, più o meno all’improvviso. La naftalina rappresenta l’emblema di questa sparizione atomica. Preservatrice delle lane e castigatrice delle insidiose tarme, la pallina di naftalina domina nel suo regno ligneo, fatto di cassetti e di interstizi, di tasche di giacche e di golf ripiegati su se stessi come bravi impiegati. Domina nel buio, sembra la perla nell’ostrica. Addirittura c’è chi fa aderire del tutto la narice a questa piccola sfera compatta, che già si consuma tra indice e pollice, quasi sembra entrare nel canale olfattivo, il naso si deforma. Inspiriamo profondamente i suoi vapori per sognare meglio. La naftalina dimostra l’esistenza incontrovertibile del tempo, in quanto si consuma nell’istante stesso. Uno ce l’ha in mano e dopo poco non ce l’ha più. Questo atteggiamento nipponico della pallina di naftalina non smette di sorprenderci, un po’ come le contorsioni dei bruchi verdi o delle gatte pelose.
Dentro l’armadio non ci rifugiamo unicamente al fine di piangere nascosti. L’interno dell’armadio è anche una perfetta simulazione della capsula spaziale. Ci rannicchiamo con la faccia rivolta verso l’interno delle ante, ignorando a bella posta la luce che penetra dalle fessure, dalle cerniere. Siamo nell’abitacolo di una capsula, lontana dall’astronave-madre, priva di rotta, non esiste più basso o alto, destra o sinistra, utilizziamo i rotori e la pulsantiera. Incidiamo la nostra voce nella scatola nera. Fuori dagli oblò immaginiamo il tempo curvarsi in forma di spazio, un lucernario di astri freddi e lontani, andiamo su Titano. Conosciamo l’eccezionalità della scoperta: uno spettrografo della sonda Cassini ha individuato sulla superficie di Titano del propilene. Con il propilene, meglio noto col nome di plastica, si realizzano molti prodotti di consumo, dai paraurti ai contenitori per alimentari. La plastica esiste in natura. Ciò costituisce indubbiamente un punto oscuro sul quale meditare o fantasticare. Noi proseguiamo il viaggio senza ritorno nella nostra navicella, isolati dal cosmo esterno, pilotando nella direzione di un astro più famigliare degli altri.
Molti armadi sono vuoti, per esempio quelli chiusi a chiave nel corridoio, di fronte alle aule, tra un finestrone e l’altro. Optiamo per una rinuncia secca ad aprirli, anziché procurarci di nascosto la chiave in ottone, che del resto non abbiamo mai veduto e non sappiamo nemmeno se esista. Io preferisco un armadio interno alla camerata. E’ il più maestoso, ricavato da alti fusti massicci, chiudendomi lì mi sento molto al sicuro, perché mi trovo nell’interno di un interno, costituito dalla camerata stessa. Si deve convivere, è vero, con i vestiti, che non ho idea a chi appartengano. Sono abiti maschili, di taglia adulta. Una polvere lieve è andata depositandosi negli anni sulle spalline delle giacche e una camicia bianca, forse da sera, è ingiallita in malo modo. Nel fondo dell’armadio, in un sacchetto di panno lenci, sono custodite scarpe, un paio molto elegante, di buon cuoio nero, mi piace annusarne il sentore di lucido nero, quell’ombra di vernice, artefatta, artigianale, tipica delle botteghe calzolaie. E come sono belle le stringhe! Robuste ma agili, esse paiono dei serpenti di una specie molto evoluta nel futuro, precisa ed efficiente, che sta incominciando a fare a meno del corpo. Queste stringhe saettanti offrono ulteriori possibilità di scatenare la fantasia. Sono spaghetti sintetici, un cibo futuribile, quando non ci sarà più abbondanza di messi sul pianeta; oppure delle redini di esotica fattura, dei Traci, attaccate con morsi al cavallo che è la scarpa e che ci risucchia in una corsa a perdifiato sulle praterie trace; o anche degli esseri bidimensionali appartenenti a un’altra dimensione, che comunicano con il pensiero e non più con il gesto o la postura o la parola; perfino i capelli grassi e spessi di un orco gigantesco, il quale si ritrae nella sua spelonca che è l’armadio.
Qui ci scambiano i nostri tesori. Spesso facciamo la gara a chi ha più fiammiferi svedesi e per un attimo questo regno ligneo si illumina, guardiamo le nostre facce stupite, già uno soffia sullo zolfanello e tutto riprecipita nel buio.
Ai commessi non è ancora venuta in mente l’idea che siamo nascosti dentro gli armadi. Ci vengono a cercare, per condurci alla doccia, sgradevole per via del getto freddo e delle piastrelle bianche gelide, fatte di una ceramica scivolosa. Non è la prima volta che qualcuno cade e si fa male.
Questi commessi hanno una mente rudimentale, tuttavia non compongono una casta o una classe a parte. A dire il vero sono due, uno alto e guercio e l’altro alto e magro. Indossano un grembiule bluastro, tipico di qualunque bidello in qualunque istituto scolastico. Sono apparentemente indaffarati sempre, non mi sembrano efficienti. Potrebbero essere un’anomalia, ma non in un luogo in cui abitano molte anomalie, però non tantissime.
Una volta ho acceso due fiammiferi insieme, una coppia solidale, trattenendoli insieme tra il polpastrello dell’indice e quello del pollice, meditando alla luce dentro l’armadio questa frase: “Bussate e vi sarà aperto”. “Non dice di buttare giù la porta, o scassinarla; nemmeno di stare fermi davanti alla porta aspettando che la aprano; dice di bussare, discretamente, in una forma di giustezza che sappiamo tutti qual è” pensai.
Riportai queste considerazioni, forse scriteriate, sulla pagina del diario, così come sono state dette.
Quel diario è la mia croce e la mia delizia! Vi scrivo tutto dentro, ne serro con attenzione il piccolo lucchetto, lo nascondo sotto il letto. Però rileggerlo mi dà molta malinconia, non mi viene da piangere, questo no, mi viene da pensare che quei momenti sono già passati e vorrei continuare a viverli. Ma sono troppi, non sarebbe umanamente possibile.
Anche gli altri tengono un diario, ne sono sicuro. Sospetto che persino il maestro ne possieda uno.
Un pomeriggio, per via del rilassamento, mi sono addormentato dentro uno di questi armadi, mi sono svegliato nel buio, stordito e ancora impregnato di quel sonno sordo.

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